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Beni culturali in affitto

Un nuovo strumento di acquisizione museale

Fabrizio Lemme

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Era nella tradizione mondiale che ogni istituzione museale fosse orgogliosa del proprio patrimonio culturale così come si era accumulato con il decorso del tempo e con le nuove acquisizioni che venivano ad arricchire quelle sedimentate «ab antiquo». Il museo annoverava tutte le opere che ne costituivano la proprietà e questa nel sistema italiano integrava il demanio storico artistico in virtù del quale le raccolte museali, ai sensi dell’art. 822/2 del Codice Civile, divenivano indisponibili e rivendicabili in eterno. Questa affermazione è di non poco conto nel Diritto del patrimonio culturale: un’opera che abbia fatto parte, anche in tempi remoti, del patrimonio di un museo, non può formare oggetto di acquisto, a titolo di buona fede (art. 1153 Codice Civile) o a titolo di usucapione (art. 1158 Codice Civile) da parte anche di un ignaro acquirente e l’azione di rivendica dello Stato non è soggetta ad alcuna prescrizione.

L’imperatore Giustiniano nell’emanare il Corpus Iuris Civilis, la legislazione più completa e più duratura, dichiara esplicitamente la sua certezza («non desperamus») che interverranno altre tipologie contrattuali «quae adhuc in legum laqueis non sunt innodata», a quel momento ancora neppure previste nelle leggi vigenti. 

Ora nella storia dei musei si introduce un fatto normativo nuovo: il costo sproporzionato che hanno acquisito i beni culturali di più rilevante impatto, anche mediatico, e la necessità di un ricambio delle opere da esporre per attirare il turismo culturale hanno imposto di far ricorso a nuove figure contrattuali, un tempo sconosciute nella pratica museale. È così intervenuto il comodato di beni culturali. L’art. 44 del D. Lgs. 42/04 già lo ha contemplato esplicitamente e disciplinato nel tempo (la durata minima è di cinque anni) e nei modi di esercizio, così descrivendone la funzione: consentire la fruizione da parte della collettività di beni culturali mobili di particolare pregio o che rappresentino significative integrazioni delle collezioni pubbliche. Ma il comodato, per definizione gratuito (art. 1803/2 Codice Civile), costituisce pur sempre una forma di mecenatismo, ossia rappresenta una forma di attribuzione patrimoniale gratuita da parte di soggetti interessati non venalmente alla cultura, purtroppo rari nella società contemporanea!

Vi è però un’altra forma di utilizzo economico del bene culturale diverso dalla vendita, l’affitto, ossia la concessione in uso, dietro un compenso in denaro, di un bene culturale da parte del privato possessore: la legislazione vigente nulla dice al riguardo e dunque tale tipologia contrattuale, almeno in parte, «adhuc in legum laqueis non est innodata».

Supponiamo che un soggetto sia nella disponibilità di un bene culturale il cui valore di mercato sia notevolissimo (ad esempio, 100 milioni di euro) e il cui richiamo pure (ad esempio, un’opera di Caravaggio). Un museo di piccole dimensioni non potrebbe mai permettersene l’acquisto ma potrebbe prenderlo in prestito pagando un canone di affitto giustificato dall’aumento delle presenze turistiche che ne deriverebbero. D’altra parte, il soggetto privato (ad esempio, una grossa società) potrebbe essere interessato a non alienare definitivamente un bene di certo non soggetto a degrado e che ne costituisce un sicuro cespite patrimoniale. Se a questo aggiungiamo un ragionevole reddito, l’investimento è doppiamente sicuro. Si avvertono i primi segni di interesse all’affitto: mi è stato detto da una società antiquaria del piccolo museo di Bruges che, impossibilitato ad acquistare un’opera il cui valore di mercato è di 100 milioni di euro, l’avrebbe presa in affitto decennale per un canone interessante. Siamo nel caso previsto da Giustiniano: l’economia, incessante matrice delle forme giuridiche, ha avuto sbocco in una nuova forma contrattuale, prevista ma mai finora contemplata nella logica museale. Il nostro ordinamento dei beni culturali prevede fortissime restrizioni alla fuoriuscita dal territorio nazionale delle cose d’arte più significative. Ci si chiede allora: posto che un bene culturale di alto valore presente nel territorio italiano è di fatto inesportabile a titolo definitivo, potrà essere esportato a titolo provvisorio, con una esportazione temporanea consentita per la durata di diciotto mesi (art. 71/5 D. Lgs. 42/04) e teoricamente rinnovabile? L’art. 64 bis del D.Lgs. 42/04, nell’introdurre la disciplina dell’uscita dall’Italia e dell’entrata in Italia dei beni culturali, fissa questi principi guida:

a. la conservazione dell’integrità del patrimonio culturale;
b. il rispetto degli indirizzi e dei vincoli fissati in ambito comunitario;
c. la non assimilazione alle merci dei beni costituenti il patrimonio culturale e quindi la piena possibilità di sottrarre gli stessi al principio della libera circolazione entro il territorio di Schengen.

Nell’ambito di questi principi guida l’uscita temporanea dei beni culturali dall’Italia non può tramutarsi in una sottrazione a tempo indeterminato degli stessi beni alla fruizione nazionale con il meccanismo di: 1. autorizzare l’esportazione per 18 mesi; 2. reintrodurre il bene in Italia alla scadenza del diciottesimo mese; 3. riesportarlo subito dopo, per ulteriori 18 mesi e così all’infinito.

Infatti, il principio prima indicato alla lettera a) ne risulterebbe gravemente frustrato e l’inesportabilità dei beni costituenti il nostro patrimonio culturale potrebbe essere facilmente aggirata.

Si fa notare che l’art. 71/2 cit. D. Lgs. non prevede il diritto assoluto del possessore del bene a ottenerne l’attestato di circolazione temporanea, in quanto la richiesta può essere accolta o negata, con motivato giudizio. Pertanto, sarà necessario che il possessore, nel richiedere l’attestato di circolazione temporanea, indichi la finalizzazione della stessa a un qualche evento rilevante e apprezzabile anche nell’ordinamento italiano, in virtù del quale il bene da esportare sia solo temporaneamente, non indefinitamente o comunque per lungo tempo, sottratto alla fruizione nel territorio nazionale.

Su tale quesito, pertanto, la mia risposta è totalmente negativa, anche se auspico, ormai da quarant’anni a questa parte, che l’iniquo e vessatorio regime dell’esportazione abbia fine.

Fabrizio Lemme, 08 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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