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Attraversiamo un ciclone: aggrappiamoci alla cultura

Dopo un ventennio di decadenza, il Paese ha bisogno di stabilità del Governo e di essere parte di un’Europa veramente unita. Senza questi presupposti il futuro diventa molto incerto

Riservatezza: è lo stile di Luigi Zanda, qualità rara, oggi, per un politico. Lui guarda alle radici: «Sono di antica famiglia sarda. La mia educazione mi porta alla riservatezza. Ho avuto una vita di lavoro molto intensa e responsabilità personali per me rilevanti ma non ho mai cercato il “ritorno” mediatico. Anzi, qualche volta mi ha anche infastidito».

Nel suo ufficio di capogruppo del Partito Democratico al Senato, Zanda distingue tra un prima e un dopo nella sua vita di lavoro: il dopo è 13 anni fa, quando è iniziato il suo impegno politico diretto. È diventato infatti senatore nel 2003 e poi nel 2006 con la Margherita e infine con il Pd nel 2008 e nel 2013. Prima, la sua vicenda personale e politica è segnata da incarichi diversi: «Nel lavoro, nelle mie tante attività, non c’è stato mai un momento senza tracce di interesse culturale. Intendo la cultura come una costante della mia vita, come dovrebbe essere per ciascuno di noi, anche quando non ce ne accorgiamo. Del resto, si fa cultura quando ci si occupa delle Scuderie del Quirinale ma anche facendo l’avvocato o l’amministratore di aziende».

Proprio come avvocato inizia il lavoro di Zanda, prima consigliere di prefettura, poi all’Iri. Si comincia a parlare di lui negli anni Settanta, quando diventa assistente e portavoce di Francesco Cossiga, ministro dell’Interno e poi presidente del Consiglio. Negli anni Ottanta, è a lungo nel CdA del gruppo L’Espresso, poi presidente dell’Agenzia per il Giubileo del 2000, quindi del Palaexpo di Roma (con le Scuderie del Quirinale) e della Quadriennale. Nel 2002 diventa consigliere di minoranza nel CdA della Rai. Dal 1986 al ’95 è anche Presidente del Consorzio Venezia Nuova, anni che Zanda definisce «importanti e formativi, una vicenda che ho seguito fino all’approvazione del progetto di massima. Per me è due volte motivo di orgoglio: primo, perché si è trattato di un progetto molto innovativo, di ingegneria idraulica e ancor di più per il valore di salvaguardia dell’ambiente lagunare; secondo, perché i dieci anni di lavoro a Venezia sono stati di assoluta legalità».  

Il Consorzio Venezia Nuova è stato colpito da uno scandalo, tangenti e corruzione. E il Mose non funziona mentre le grandi navi lambiscono San Marco...

Al punto in cui siamo, con la conclusione del progetto Mose ormai vicina, bisogna proseguire nell’opera di trasparenza e terminare i lavori. Per le grandi navi, sono contro il loro transito nel bacino di San Marco e contro l’allargamento di altri canali. Non conosco i progetti e non parteggio per una delle soluzioni alternative. Dico che Venezia ha già pagato un prezzo troppo alto per gli effetti negativi dello scavo del canale dei petroli.

La sua esperienza di consigliere Rai, nel 2002, è durata poco, con dimissioni dopo appena 9 mesi: com’è andata?

Non ho accettato un’ennesima nomina che giudicavo sbagliata e di parte, quella di un amministratore della Sipra.

Alla Rai si rimprovera da tempo una scarsa attenzione alla cultura: pensa che il Governo dovrebbe intervenire? Lei guarda la tv?

Devo guardare la tv per conoscere e quindi votare, in Senato. Sul significato di «cultura» dobbiamo intenderci: non è solo musica, letteratura, teatro, pittura ecc. Questo lo troviamo e bene nelle reti Rai specializzate come Rai5 o Rai Storia, che guardo spesso. Si può e si deve fare cultura anche nei telegiornali o evitando la volgarità nei programmi di intrattenimento. È la sfida della nuova dirigenza Rai. C’è sempre cultura quando la qualità è elevata.   

Proprio sulla qualità si è formato il gusto di Luigi Zanda: lo dimostrano due sue iniziative. La prima è parte della sua attività di parlamentare: ha presentato un disegno di legge, messo in calendario, sulla «valorizzazione della qualità architettonica e disciplina della progettazione» per il quale l’Ordine degli Architetti gli ha assegnato il titolo di «Architetto d’onore per il 2015». La seconda iniziativa è il regalo di Natale che ogni anno Zanda dedica ai suoi amici: fa stampare, in edizione fuori commercio, piccoli libri che sceglie con cura raffinata. Per il 2015, alcune parti di Le mie prime convinzioni dell’economista John Maynard Keynes. 

Quali sono le sue preferenze e le sue scelte culturali?

Mi piace molto il calcio, anche in tv! Ma sabato scorso sono andato a Firenze per vedere il nuovo Museo dell’Opera del Duomo, e per entrare ho dovuto fare una lunga fila. Meno male, c’è interesse. Mi è sembrato un esempio eccellente di valorizzazione per un patrimonio eccezionale. Basta pensare alla Pietà fiorentina di Michelangelo. Ancora una volta sono rimasto incantato dalla Maddalena di Donatello, per me la più bella statua lignea del mondo.

La riforma Franceschini del Ministero dei Beni culturali è stata accolta da forti critiche e stenta a decollare, mentre i fondi per la cultura restano davvero scarsi.

Dopo un ventennio di decadenza, il patrimonio culturale italiano è affamato di risorse e mortificato dalla trascuratezza. Renzi e Franceschini hanno invertito la rotta: ci sono nuove risorse materiali e culturali.

Lei pensa che questo basti a migliorare una situazione tanto compromessa?

In senso politico è qualcosa: ci vuole tempo per recuperare il terreno perduto e ci muoviamo ancora all’interno di una grave crisi. Penso che per un rinascimento della cultura serva però la collaborazione di tutti, perché il patrimonio è di tutti. Devono partecipare anche i privati e il rapporto con loro va migliorato. Lo Stato deve dare l’indirizzo e avere la forza del controllo. Il pericolo viene da iniziative senza regole. 

Ma allora alla cultura servirebbe un progetto, una strategia nuova.

Il punto centrale è questo: il mondo e l’Italia attraversano una fase prolungata di trasformazioni profondissime, di cui nessuno è ancora in grado di definire il senso generale e di prevedere l’esito. È un ciclone permanente dopo il quale nulla sarà come prima. Sono però convinto che se vogliamo salvare i valori fondamentali dell’uomo non possiamo che rivolgerci alla cultura.

Quali sono le sue letture preferite?

Ho la tendenza a occuparmi a fondo delle cose. Negli ultimi anni le mie letture sono dirette all’economia, perché considero molto seria la crisi che stiamo attraversando, e ai temi della pace e della guerra. Concordo con chi ha sostenuto che l’11 settembre 2001 è scoppiata quella quarta «guerra mondiale a pezzi» di cui parla papa Francesco.

Che ruolo ha l’arte nella sua vita?

Ho una profonda passione per la musica. Frequento Santa Cecilia, il Teatro San Carlo di Napoli e la musica mi porta anche all’estero. Mi piace tutta la musica, compreso il jazz e il genere cosiddetto leggero. Vivo solo e la musica è una presenza costante nella mia casa e nella vita. Anche i miei genitori la amavano, mia madre e mio padre, un grande intellettuale. Certo tutta l’arte è un nutrimento formidabile. Penso al «Pugilatore» di Palazzo Massimo da poco tornato da esposizioni a Berlino, New York e Los Angeles. Per me ha una forza ipnotica come i nudi femminili di Velázquez e i ritratti di Rembrandt. Ho una passione particolare per i bronzi rinascimentali.

Frequenta le mostre?

Credo nella diffusione della cultura, purché di qualità. Una mostra non può solo offrire opere importanti ma deve riuscire a proporre un «valore aggiunto», per esempio mettere in luce opere poco conosciute o collegare tra loro epoche diverse. È utile anche quando l’esposizione serve a salvare un’opera finanziandone il restauro. Non mi piacciono le mostre che ammucchiano confusamente opere diverse.

Anche per le mostre, come per tutta la cultura, c’è un forte gap tra Nord e Sud Italia e questo penalizza anche città importanti come Napoli o Palermo.

Eppure Napoli è una grande capitale della cultura. Io amo il San Carlo, grande istituzione musicale. In generale nel mio lavoro nelle strutture pubbliche, come durante la preparazione del Giubileo del 2000 e prima a Venezia, ho capito che l’elemento chiave è sempre quello della progettazione. Senza progetto di qualità non si realizza nulla. Una delle difficoltà del nostro Paese nel realizzare opere pubbliche è nella debolezza dei progetti. Il principio della centralità dei progetti vale per tutto. 

Ma ci vogliono anche leggi che vadano in questa direzione. Per esempio, la Legge di stabilità favorisce le trivellazioni petrolifere in mare e il consumo di suolo, insomma la distruzione della bellezza italiana e del paesaggio.

Ho letto anche la denuncia di Giulia Maria Crespi su «Il Giornale dell’Arte» (cfr. lo scorso numero di «Vernissage», pp. 7-9, Ndr). Il cuore del problema è che negli ultimi trent’anni s’è indebolita la forza dello Stato e la qualità delle strutture pubbliche, anche tecniche: gran parte dei problemi derivano da questo deficit. Altri Paesi come Germania, Francia e Gran Bretagna hanno lavorato meglio e difeso le competenze dello Stato.

Non crede che questo dipenda anche dal passaggio a Regioni e Comuni di competenze che escludono lo Stato?

Proprio la difesa del suolo presuppone comunque un reticolo di difese pubbliche che coinvolga la struttura statale ma anche le amministrazioni regionali e comunali oltre alle grandi reti infrastrutturali. Solo un lavoro coordinato può garantire la tutela del territorio. 

Resta la sensazione che lo Stato non riesca più a intervenire e a opporsi, quando è necessario, alle decisioni autonome delle istituzioni periferiche.

Soltanto un buon governo può sciogliere il nodo tra diritto e dovere delle autonomie locali e quello dello Stato centrale. Una dialettica di questo tipo esiste in tutte le grandi nazioni. Da noi la questione è molto delicata proprio perché le strutture centrali sono deboli e purtroppo si compete per peggiorare, non per migliorare.

Sembra abbastanza pessimista sul nostro futuro. Che cosa servirebbe all’Italia?

Sono ottimista per temperamento e per ragionamento. Il Paese ha bisogno di due precondizioni: primo, stabilità del Governo; secondo, essere parte di un’Europa realmente unita, con una politica veramente comune. Senza questi presupposti, il futuro diventa molto incerto. Sull’Europa c’è molto pessimismo, ma io penso che proprio questa situazione di difficoltà potrebbe costringere tutti i Paesi a  un vero cambiamento, nel senso di una maggiore solidarietà.

Come si concilia il suo lavoro attuale con la passione per la cultura?

Viviamo in un mondo complicato, in rapida trasformazione. Non avevo programmato di dedicare una parte della mia vita alla politica. Oggi è importante farlo, mi fa piacere e svolgo il mio incarico con tutte le energie di cui sono capace. Il mix tra responsabilità politica e complessità della fase che l’Italia sta attraversando rende il mio compito attuale la cosa più difficile che abbia mai fatto. 

Edek Osser, 03 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

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