Attenzione musei: pericolo di traumi!

Un manuale di preparazione emotiva per visitare le mostre da parte di Vincenzo de Bellis: il caso di Philip Guston

«The Studio» (1969), di Philip Guston (particolare). © The Estate of Philip Guston; cortesia Hauser & Wirth, Private Collection. Foto: Genevieve Hanson
Vincenzo de Bellis |

Corrado è un bambino di 9 anni, quasi 10, che ha la sfortuna di avere due genitori curatori, il sottoscritto e mia moglie Bruna. Da quando è nato, è stato trascinato per musei, conferenze, mostre e nei posti più impensati. Non molto tempo fa in una serata tra amici qui negli Stati Uniti, lui produttore cinematografico, lei fotografa, quindi persone progressiste e altrettanto girovaghe come noi, anche loro con un figlio della stessa età del nostro, ci è capitato di vedere tutti insieme video e foto di un nostro viaggio di famiglia del 2017 a New York.

In un video, al MoMA PS1, Corrado, che allora aveva 5 anni, appare davanti a un lavoro al neon di Bruce Nauman: «Sex and Death by Murder and Suicide» (1985). Nel video si vede questo bambino che osserva profili di figure umane che alternativamente lampeggiano in neon rosso, rosa e arancione, mentre si scambiano fellatio, si puntano delle armi e infine girano le armi su sé stesse.

A quella vista, la faccia del nostro amico produttore si è scurita e senza pensarci due volte ci ha chiesto se per noi era normale mostrare certe cose a un bambino, e, soprattutto, se nella mostra c’era un avviso che mettesse in guardia sul linguaggio esplicito capace di urtare la sensibilità di qualcuno. Io ho risposto che il PS1 come anche il MoMA a cui è affiliato avevano un avviso all’ingresso del museo e di ogni mostra che avvertiva del linguaggio e delle immagini esplicite; poi a ognuno la scelta di entrare o meno.

Lui si arrabbia e mi dice che non è assolutamente così, che non basta, che i musei dovrebbero essere luoghi dove la gente non dovrebbe essere messa nelle condizioni di rivivere i propri traumi e rispettare il fatto che ci potrebbero essere tantissime ragioni per cui i visitatori potrebbero preferire non confrontarsi con certi significati e contenuti. Potrebbero aver perso di recente un genitore; potrebbero aver subito una violenza sessuale; potrebbero sentirsi sopraffatti dalle immagini della violenza della polizia; potrebbero essere responsabili per una persona più anziana o più giovane (tipo appunto i bambini) che potrebbe trovare alcune opere inquietanti.

Pertanto non si dovrebbero mettere in mostra opere che possano urtare la sensibilità delle persone e se questo non fosse possibile, i musei dovrebbero pensare forme di interpretazione che tengano conto di tutto quello che alla gente possa succedere. Vi confesso che stavo per esplodere in una polemica senza fine sul bigottismo di questo Paese che ha il più alto numero di morti per arma da fuoco al mondo, il più alto numero di sparatorie di gruppo al mondo.

E poi in questo stesso Paese la gente pretende che i musei si preoccupino dei traumi della gente. Non mi sarei mai fermato, e sarei stato molto pesante. Per questo, dopo anni di analisi, e soprattutto dopo aver ricevuto lo sguardo fulminante di mia moglie, mi sono contenuto e con una scusa ci siamo dileguati.

Cito questo aneddoto non tanto per raccontare una vicenda personale, ma perché questa discussione mi è tornata prepotentemente in mente qualche giorno fa durante la mia visita alla tanto attesa mostra «Philip Guston Now» al Museum of Fine Arts di Boston. Nell’estate 2020 la mostra, organizzata da Tate Modern di Londra, National Gallery of Art di Washington, MFA Houston e MFA Boston, era stata posticipata dopo che Kaywin Feldman, direttrice della National Gallery, ha posto dei dubbi su come i visitatori avrebbero reagito nel vedere le figure incappucciate, per quanto cartoonesche, del Ku Klux Klan, dipinte da Guston principalmente negli anni ’70, in un momento di grande rivolta sociale e politica avvenuta a seguito dell’uccisione di George Floyd.

Dopo qualche mese, tutti i musei hanno annunciato che avrebbero rinviato la mostra al 2024 per ripensarla, scatenando la reazione di centinaia di artisti di spicco che hanno firmato una lettera aperta, la cui frase meno critica suonava così: le istituzioni temono le controversie, «mancano di fiducia verso l’intelligenza del loro pubblico». In risposta alle critiche, i quattro musei hanno deciso di anticipare l’apertura al 2022 essendo il Museum of Fine Arts di Boston la prima tappa.

Nella mostra sono inclusi i dipinti delle figure incappucciate, insieme a un contesto storico che spiega come e quando sono stati realizzati; un opuscolo di «preparazione emotiva» redatto da uno specialista in traumatologia che esorta i visitatori a «identificare i propri limiti di sopportazione e prendersi cura di sé stessi»; e una deviazione nel percorso che consente ai visitatori di aggirare le opere a tema Klan. Se tutto questo non fosse abbastanza, e abbastanza patetico, i curatori, che molti dei miei colleghi pensano essere delle vittime e invece sono complici di tutto questo, hanno inserito all’ingresso delle sale, in corrispondenza dell’introduzione alla mostra, uno statement di gruppo (quattro curatori per una mostra personale) che spiega le ragioni dello spostamento, ma che suona veramente come una «excusatio non petita».

Tutto questo è esattamente quello che piacerebbe al mio amico (o meglio, conoscente) produttore. E invece trovo tutto questo grottesco e patetico. Sul messaggio dei curatori non mi esprimo, perché sarei denunciato, penso veramente che abbiano toccato il fondo. Perché non restare su un semplice avviso come quello del PS1 o come quello dei film che hanno un codice che indica se sono adatti a un pubblico adulto o meno? Fornire ai visitatori una dichiarazione di «preparazione emotiva» prima della mostra mette nelle condizioni l’istituzione di estendere enormemente il suo ruolo e il suo stesso potere.

Il museo così non è più il presentatore, per quanto attivo, di un contenuto, ma in questo caso si configura da solo come un produttore allo stesso tempo della malattia e della sua cura, della ferita e del suo cerotto. Perché dobbiamo partire dall’assunto che il museo sia un luogo di salvezza dalle atrocità del mondo e al tempo stesso che le mostre o le collezioni siano necessariamente fonte di trauma e non una forma di stigmatizzazione o di risposta alle nefandezze della realtà.

Così facendo siamo noi stessi a suggerire che alcune opere d’arte dovrebbero essere trattate come atti di violenza e non come rappresentazione degli stessi atti per denunciarli o combatterli. Perché l’omicidio di George Floyd, che è un atto abominevole, deve incidere sul modo in cui vediamo le opere di un artista che le ha dipinte nel 1970? E poi proprio perché queste cose succedono e succedono da secoli, perché dovremmo pensare che il museo sia fuori dalla realtà che viviamo tutti i giorni? Ogni giorno vediamo violenza ovunque, una violenza reale e molto più diretta e meno mediata di un quadro.

Qualcuno ci dà un manuale di preparazione emotiva se guardiamo quello che sta succedendo in Ucraina? E se anche non ci fosse mai stata la guerra, come non possiamo far finta che la violenza sia ovunque perché è parte di noi. E se anche volessimo restare soltanto nel mondo delle arti, oggi su Netflix ci sono almeno 10 titoli nella homepage che parlano di violenza, siano film sull’olocausto o sulla violenza sessuale, o sulla carcerazione preventiva o ancora sull’abuso di oppioidi.

La verità è che abbiamo una responsabilità enorme nei confronti di tanti, in primis degli artisti, che hanno il diritto di esprimersi come vogliono. Non ci obbligano loro a essere mostrati. Se decidiamo di esporli, dobbiamo fare i conti con noi stessi e decidere chi siamo. Ma è anche giusto che nel 2022 si abbiano in mente le tante e grandi responsabilità nei confronti del pubblico. È finita, e va bene così, l’epoca in cui i curatori facevano da soli il bello e il cattivo tempo, e per fortuna finirà presto l’odiosa abitudine per la quale i curatori star trasformano il museo, spesso anche pubblico, in un regno personale, diciamo meglio una dittatura, per cui essi sono direttore, curatore e social media manager.

Ora l’inclusione di altri nella programmazione è non solo auspicabile ma anche necessaria e fertile, perché aiuta il pluralismo. Certo che ci sarà sempre una persona che dovrà decidere, ma sulla base del dialogo con gli altri, sempre che tutti questi altri abbiano bene in mente che si tratta di musei e pertanto la primaria occupazione di tutti coloro che ci lavorano è studiare, sapere il più possibile su un argomento e poi prendere le decisioni in base a queste conoscenze sulla base della valorizzazione delle opere. Tutti noi professionisti di museo dobbiamo conoscere i nostri limiti e fare molta attenzione alla capacità di danneggiare, che noi stessi abbiamo, sia l’arte sia il pubblico.

Scrivere semplicemente ma anche chiaramente che una mostra ha un linguaggio esplicito, o che ci sono delle immagini di violenza, è un invito a fare una scelta: noi scegliamo di mostrarle e voi scegliete di vederle o non vederle. Questo mette nelle condizioni tutti, esattamente come facciamo con i film, di sapere se e come vederlo, con qualche aspettativa di un certo tipo, a volte fuorviata in un senso o nell’altro, ma pur sempre nei limiti della scelta fatta con le nostre capacità intellettive.

Creare tutto quello che a Boston hanno creato, introducendo la certezza che le opere avranno una capacità di ferire la sensibilità dei visitatori, con testi di psicologi e avvisi dei curatori, non solo distrugge gli intenti e la figura stessa di un artista che non può neanche decidere se accettare o no perché non più vivente, ma trasforma tutti i visitatori in una massa indistinta e senza capacità di discernere con la propria libera e personale interpretazione, togliendo ogni forma di sforzo critico che tutti noi dovremmo augurarci di fare per tutto. E questo non è che un sopruso e, ahimè, un ulteriore e sfacciatissimo abuso di potere.

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