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Arte da buttare nel cesso come cibi mal conservati

Per Francesco Bonami: «L’arte deve saper cucinare il mondo»

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Rocco Moliterni

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«Cucina l’arte ma non metterla da parte, soprattutto non buttarla nel cesso, anche se a volte ti verrebbe voglia di farlo», si potrebbe sintetizzare così il nuovo libro di Francesco Bonami. L’arte nel cesso (questo il titolo) si legge con gusto e come certi piatti toscani ben conditi  quando l’hai finito ti viene  ancora voglia di fare la scarpetta. E non difetta certo in pepe: Bonami è fiorentino e da buon toscanaccio ama l’ironia, non disdegna il sarcasmo e il paradosso (Marina Abramovic è paragonata alla Madonna di Medjugorje, Pistoletto a Padre Pio, Penone a Mauro Corona), condisce tutto  con giochi di parole, battute (Joseph Beuys «furbakkione», Annigoni «morto vivente rinascimentale») e neologismi (per Vezzoli conia «curista»: «un miscuglio di artista e curatore, che ricorda anche il turista»).
 
Ma andiamo con ordine. L’arte nel cesso arriva quasi dieci anni dopo Lo potevo fare anch’io. In quel libro Bonami spiegava a quelli che davanti a un’opera d’arte contemporanea usano la fatidica frase, che il problema non è fare l’opera ma avere l’idea di farla, e che l’artista l’idea l’ha avuta prima di voi. Nel frattempo però Bonami ha in parte cambiato parere: «Credo ancora che l’idea abbia un suo valore anche nella sua più totale semplicità. Ma penso anche che l’arte contemporanea abbia finito il suo corso naturale e che tante idee che un tempo avevano un carattere di rottura oggi siano state assimilate dal pubblico, e quindi una loro variazione potrebbe essere creata dal pubblico stesso. Sì avete capito bene, lo potete fare voi! Ma questo non vuol dire che nel farlo sarete automaticamente artisti».


Il corso naturale dell’arte contemporanea per Bonami si è aperto con l’orinatoio rovesciato da Duchamp e si è chiuso con il cesso d’oro di Cattelan (da Bonami stesso intitolato «America») esposto al Guggenheim di New York, dove la gente fa la coda per soddisfare i propri bisogni non solo artistici. «Come se l’arte contemporanea e le sue idee fossero state mangiate dalla bocca di Duchamp, digerite per cento anni dagli enzimi concettuali, e non, del suo stomaco, fatto da tanti artisti diversi, per poi come ogni cibo, finita la digestione e assimilato, essere espulso dalla sua uscita naturale, il culo di Cattelan». E il ruolo dell’artista finisce per non essere molto diverso da quello dello chef. Bonami scrive che «L’arte deve saper cucinare il mondo, se no il mondo non sa di nulla. Insomma, le zucchine quando sono sdraiate sono anche belle da vedersi ma poi se uno le vuole mangiare è meglio cucinarle».


Il paradosso è che se l’artista dovrebbe fare lo chef, nel mondo di oggi sono gli chef ad avere il ruolo e la considerazione sociale che un tempo avevano gli artisti, anche perché questi ultimi sovente sono passati dalla «rottura alla bruttura», permettendo così il passaggio dalla «rottura a Bottura» (sono i titoli di due capitoli). «L’arte di rottura oggi è stata sostituita dalla culinaria,  dagli chef stellati, dai maestri del tiramisù rivisitato e decostruito. I veri sperimentatori del gusto umano non sono più gli artisti nei loro studi, ma i cuochi nelle loro cucine». D’altronde molti cuochi si ispirano all’arte contemporanea nel design dei lori piatti, altri «con i denari fatti trasformando un’oliva in una bistecca alla fiorentina l’arte contemporanea la collezionano».


Gli occhi sono stati sostituiti dal palato «e prima o poi in qualche ristorante insieme al menu ci daranno l’audioguida dove magari saranno registrati i gorgoglii del nostro stomaco, qualche piccolo ruttino e peto causati dal burro fuso a 1.250 gradi assaporato attraverso un sistema idraulico simile a quello dei freni di una Ferrari di F1». E a questo punto Bonami lancia l’allarme a critici e artisti: «L’avversario più feroce dell’arte oggi è il cibo. I canali tv vogliono solo quello e la gente forse giustamente si sente più a proprio agio osservando la metamorfosi di uno spaghetto, che si sa bene cos’è, in un chicco di riso che ascoltare qualche oscuro critico spiegare la validità di un chiodo piantato in un pezzo di legno e mostrato in un museo». E davanti alla legge del palato l’arte finisce per avere meno da dire. «In più per quanto salato possa essere il conto in uno di questi ristoranti è sempre di gran lungo più economico di una tela con i pallini di Hirst».


Ma come si è arrivati a questa situazione? Bonami lo spiega analizzando le varie facce del sistema dell’arte, dalle kermesse come la Biennale o Documenta, ai musei («Dal Prado a Prada»), al lavoro di artisti che spesso sono furbi e talora stupidi, come quelli che semplicemente per il fatto di usare nuove tecnologie sono convinti di realizzare capolavori, dimenticando da un lato che la tecnologia non è arte in sé ma uno strumento e dall’altro che se ad esempio ti cimenti con la videoarte dovresti sapere che i tuoi balbettamenti con la videocamera possono anche sortire risultati inferiori a quelli di persone che con l’immagine in movimento han sempre lavorato (a me vengono in mente le torture inflitte da artisti che magari ti costringevano a toglierti le scarpe, con l’imbarazzo di aver il calzino spaiato o peggio bucato, per inginocchiarti in un piccolo tempio a guardare infantili e noiosi video «interstellari» meno interessanti di un solo fotogramma di  Kubrick).


Ma più in generale il problema è di artisti e critici che hanno rinunciato alle cose semplici  (che non vuole dire banali, ma accessibili), puntando su un’arte elitaria e aristocratica che allontana il pubblico perché lo fa sentire ignorante e non in grado di capire quel che gli sta davanti. Bonami non risparmia nomi e cognomi: boccia (tra gli altri Botero, Mitoraj, Quinn, Ai Weiwei, Kapoor, Wolson), promuove (tra gli altri Nauman, Richter, Cattelan, Hirst, Warhol, Chapman). E in alcuni (Boetti, Koons, Sehgal) intravvede i semi da cui potrebbe ripartire un’arte post-contemporanea, capace di narrare storie e di usare un linguaggio democratico. A simboleggiarla prende a prestito un’opera di Charles Ray: un bambino tutto bianco che gioca con una macchinina. «Qualsiasi persona di qualsiasi parte del mondo comprende quel gesto. L’oggetto, quale che sia nella mano di un bimbo, diventa un universo di pensieri, l’inizio di una storia di un viaggio che il bambino farà stando fermo quasi sdraiato per terra, praticamente senza muoversi. Ecco il destino dell’arte. Farci entrare in una storia, farci iniziare un viaggio senza doverci mai spostare».


P.S. Bonami definisce Bottura il «Damien Hirst del profumo di fagiolo che il suo papà mangiava con le dita alle cinque del pomeriggio sotto il viadotto di Modena». Di René Redzepi, lo chef pluristellato del Noma, dice che «è considerato alla stregua di Duchamp: il corrispettivo dell’orinatoio è per lui un cocktail di cavallette, dove la salsa rosa sono zanzare lasciate a macerare  nel sangue che hanno succhiato la sera prima ai bambini di una colonia estiva di Copenaghen».


Su Cracco: «insistere che una tela bianca di Ryman è capace di generare  le stesse emozioni dei fiori di Warhol e del cane di palloncino di Koons è come impuntarsi a dire che il filetto di chianina destrutturato e ridotto a una schiumetta da Carlo Cracco o chi per lui dà la stessa soddisfazione che mangiare un piatto di tagliatelle al ragù fatte in casa in una trattoria di Bologna». 





L’arte nel cesso. Da Duchamp a Cattelan, ascesa e declino dell’arte contemporanea
di Francesco Bonami
135 pp., ill.
Mondadori, Milano 2017
€ 18,00

Rocco Moliterni, 11 giugno 2017 | © Riproduzione riservata

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