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«Miralda-Selz Traiteurs Coloristes» (1968) di Antoni Miralda e Dorothée Selz © ADAGP, Paris 2014, ph. Nicolas Fussler

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«Miralda-Selz Traiteurs Coloristes» (1968) di Antoni Miralda e Dorothée Selz © ADAGP, Paris 2014, ph. Nicolas Fussler

Aperitivo a pane e cipolle

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Franco Fanelli

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«Lo sapevo che tutto questo parlare di arte ci avrebbe portato dei problemi», sbotta a un certo punto Tony Soprano; ma tutto questo parlare di cibo dove ci porterà? Di sicuro al paradosso: nel tempo dei sempre più numerosi nuovi poveri costretti al junk-food (quando va bene), le televisioni servono un’abbuffata di raffinate pietanze e insopportabili intemperanze di chef variamente stellati. Poi al supermercato basta dare un’occhiata al carrello del vicino per capire che si continua, alla faccia di Beppe Bigazzi e di Gordon Ramsay, a mangiare malissimo. Ma la moda gastronomica è legata anche a un altro versante, quello dove il cibo, nel nome della protezione dei marchi, dei piccoli produttori, del dop, del doc, del docg, dell’igt e ovviamente del sempre citato «territorio» e del chilometro zero, è uno dei cavalli di battaglia di chi si vuole opporre alla fagocitante globalizzazione imposta delle multinazionali; su questo secondo «canale» è sintonizzata la filosofia slow food, che da tempo tenta di armonizzare gastronomia e alimentazione, ovvero arte culinaria e «politica», battendosi anche contro lo sfruttamento indiscriminato delle risorse. In questa direzione guarda Adelina von Fürstenberg, direttrice di Art for the World, organizzazione associata alle Nazioni Unite e dedicata alla promozione di attività espositive legate a temi sociali, curando la mostra «Food. Produrre, mangiare, consumare», allestita sino al 23 febbraio al Mucem (Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée). In attesa della già chiacchieratissima e ben più ampia mostra cui sta lavorando Germano Celant sul tema dell’Expo 2015, «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita», la Fürstenberg ha scelto 37 artisti di varia generazione in rappresentanza di cinque continenti, sintonizzabili sul tono molto più alimentare che gastronomico della rassegna. Un taglio politico e sociale, quindi, che però, come spesso accade in questi casi, concede poco respiro a un qualche benefico sprazzo di ironia. Quindi ci dobbiamo scordare, ad esempio, le torri di torrone piemontese erette negli anni Sessanta dal torinese Aldo Mondino per sottoporci, invece, alla visione di una performance del 1995 dell’immancabile Marina Abramovic intenta a un penitenziale pasto a base di cipolla cruda, metafora forse dei rospi che, secondo l’autrice, deve mandar giù l’artista per fare il suo mestiere. A proposito di afrori bulbacei, le migliaia di «teste» d’aglio racchiuse in una cassa a rete cubica dal rumeno Mircea Cantor rimandano agli odori della cucina dei poveri ma anche a un ingrediente tradizionale dell’alimentazione dei Paesi dell’Est europeo, almeno quanto lo sono i fagioli nel menu brasiliano, come ricordano quelli, contenuti in «visceri» di materiale sintetico, di Ernesto Neto. Le tre citate sono fra le molte (la maggioranza) opere di repertorio della mostra, come quelle di Meret Oppenheim, di Daniel Spoerri, del duo Miralda-Selz (con prodotti di panetteria resi immangiabili dalle assurde colorazioni) o di Jannis Kounellis, quest’ultimo con un’installazione a terra del 1968, composta da un «tappeto» di sacchi di juta su cui si erge un cumulo di semi di girasole, ovvero una delle sue molte opere dedicate al tema del viaggio e al cibo come veicolo di comunicazione tra diverse culture. Per gustare piatti più «freschi» è comunque a disposizione un succinto «menu del giorno» composto da opere realizzate per l’occasione. John Armleder, ad esempio, ha prodotto un trittico di «quadri astratti» utilizzando caramello e antiche stoviglie messe a disposizione dal museo, da cui provengono anche gli strumenti agricoli utilizzati da Barthélémy Toguo per la sua installazione e i marchi da pane d’inizio ’900 cui si è ispirato Stefano Boccalini per crearne di nuovi, sostituendo ai motivi decorativi tradizionalmente utilizzati dai panettieri messaggi come «austerità» o «disoccupazione». Recentissimo è anche il video del brasiliano Eduardo Srur, in cui l’autore «consuma» sul posto i prodotti di un supermercato versandoseli sul corpo. Da Beuys a Chen Zhen, da Broodthaers a Wolf Vostell, la rassegna è costruita intorno alla solidità di numerosi autori storicizzati o ampiamente affermati (tra gli altri, General Idea, Gordon Matta-Clark, Subodh Gupta, Marcello Maloberti, Pipilotti Rist e Nari Ward) e, sino al primo marzo, è completata da una rassegna cinematografica a tema alimentare. Tra le pellicole già proiettate, «La grande abbuffata», la stessa che, per quanto riguarda le gastromostre, continuerà sicuramente nel 2015 dell’Expo: si comincia il 24 gennaio a Brescia, Palazzo Martinengo, con «Il cibo nell’arte. Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol».

«Transtranger Café» (2012) di Nari Ward.

«Supermercado» (2014) di Eduardo Srur; © Eduardo Srur, Ph. Fernando Huck

«Entre Manger et Penser» (1990) di Chen Zhen. © ADAGP, Paris 2014, Courtesy Galleria Continua, San Gimignano/Beijing/Les Moulins/Ph. DR

«Miralda-Selz Traiteurs Coloristes» (1968) di Antoni Miralda e Dorothée Selz © ADAGP, Paris 2014, ph. Nicolas Fussler

Franco Fanelli, 13 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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