Al Castello di Rivoli un selfie con Narciso

Per Anne Imhof, Leone d’oro alla Biennale, «il dipinto di Caravaggio apre a ulteriori letture del sé. C'è un altro in quel riflesso»

«Untitled (Faust)» (2018) di Anne Imhof Cortesia dell’artista e di Galerie Buchholz, Berlino / Colonia / New York
Redazione |  | RIVOLI (To)

A tre anni dal Leone d'oro assegnatole per il Padiglione della Germania alla Biennale di Venezia nel 2017, Anne Imhof (Giessen, 1978) è protagonista dal 5 novembre al 28 febbraio nella Manica Lunga del Castello di Rivoli della prima mostra in un’istituzione italiana. Organizzata in collaborazione con la Tate di Londra e l’Art Institute di Chicago, «Anne Imhof: Sex», a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, costituisce il primo segmento di «Espressioni», progetto espositivo biennale che si completerà nel 2021 con una grande collettiva. Artista e curatrice dialogano sulla mostra.

Carolyn Christov-Bakargiev: «Sex» nella sua nuova versione al Castello di Rivoli è la tua prima grande mostra museale che non inaugura con una performance. Questo è dovuto all’emergenza Covid-19 ma anche a uno sviluppo stesso della tua opera. L’atto performativo si declinerà in forma simbolica e poi, in maniera letterale, al momento di congedo dalla mostra di un dipinto storico molto importante per te. Questo dipinto, insieme ad altri capolavori della storia dell’arte, sarà visibile presso il Castello di Rivoli nell’ambito della mostra «Espressioni. La Proposizione», con la quale intratterrai uno stretto dialogo in occasione del tuo progetto espositivo. Con il tuo team metterai infatti in atto nella Manica Lunga una performance/celebrazione per la partenza da Torino del «Narciso» di Caravaggio e una parte si svolgerà presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica in Palazzo Barberini a Roma, all’arrivo del dipinto «a casa», nel Salone di Pietro da Cortona. La mostra «Sex» si compone dunque di sculture, dipinti, strutture architettoniche che riempiono la Manica Lunga, ma anche di quadri storici, oltreché di Caravaggio, di Artemisia Gentileschi, Ribera e altri, e di una serie eccezionale di nuovi disegni che hai realizzato durante il lockdown, concepiti quasi come fossero dei personaggi di una performance essi stessi, dei fantasmi di persone che vagano nello spazio espositivo.
Anne Imhof: Adoro l’idea che, sotto forma di personaggi pittorici, i soggetti dei dipinti facenti parte della mostra «Espressioni. La Proposizione» entrino prepotentemente in «Sex». Non avrei mai pensato di poter avere un’opera del Caravaggio come parte integrante di un mio lavoro.

C.C.B.: Qualche tempo fa, proprio durante il lockdown, abbiamo intrattenuto una conversazione nella cornice di un programma online del Cosmo Digitale del Castello di Rivoli realizzato con la Libreria Luxemburg di Torino e Faust. In quella occasione ci guardavamo l’un l’altra attraverso uno schermo che su Instagram era diviso a metà. Quella modalità di comunicazione mi rimanda in qualche modo al dipinto del Narciso, al collasso dell’immagine nel proprio riflesso. Una fruizione e un consumo del sé strumentalizzata dai social media.
A.I.: Vero. Tuttavia, penso che il confine tra Narciso e il suo riflesso nel dipinto del Caravaggio sia leggermente diverso da quello che su Instagram ci divideva in quell’occasione. Sui social è un algoritmo che fa sì che le gerarchie tra chi guarda e chi è guardato cambino di volta in volta. Nel dipinto di Caravaggio, il protagonista si confronta con il sé più oscuro e profondo e questo si evince dal riflesso amorfo e mostruoso sulla superficie dell’acqua dipinta.

C.C.B: Ad ogni modo, questo dipinto è la rappresentazione dei tempi narcisistici che viviamo, ritmati dal costante scatto di selfie. Il Narciso di Caravaggio palesa i sintomi di questo abuso, il suo riflesso oscuro, in un modo che i sistemi di comunicazione oggi non hanno interesse a fare. È come se Caravaggio direzionasse la fotocamera verso il nostro sé intimo e spaventoso. Stiamo esperendo un passaggio epocale di prospettiva. Che differenza intercorre ad esempio tra le immagini che Susan Sontag scattava ai suoi soggetti e i nostri selfie? Sontag concepiva lo scattare foto come una forma di violenza. Non è una sorta di suicidio della società che sprofonda nel narcisismo?
A.I.: Può essere. È fondamentale comunque sdoganare il narcisismo dalla sua accezione meramente negativa. In fondo, il dipinto del Caravaggio apre a ulteriori livelli di lettura del sé. C’è un altro in quel riflesso, un aspetto inesplorato della propria personalità. Persino un selfie potrebbe essere strumento atto a ri-conoscere noi stessi in maniera inaspettata, se solo fossimo disposti a leggere diversamente quella nostra immagine. Di fatto, tutti cerchiamo di capire che ruolo abbiamo in questa società accelerata, sebbene a volte ci serviamo impropriamente di alcuni strumenti per farlo. Il selfie potrebbe essere un modo di avvicinarsi all’altro, a qualcuno al di fuori di te, non te.

C.C.B.: Quindi l’obiettivo è aprirsi all’altro. Anche le tue performance aspirano alla vicinanza tra corpi e conoscenza dell’altro. In questo periodo, però, il nostro bisogno di stare vicini si scontra con l’impossibilità di assembrarsi. In un tale contesto, le tue performance, che puntano all’interazione fisica tra performer e spettatore, potrebbero persino essere illegali!
A.I.: Ultimamente anch’io ho pensato spesso al distanziamento dei corpi e a cosa questo avrebbe implicato nella mia pratica. Penso però anche che, ora più che mai, tutte le nostre congetture siano destinate a cambiare repentinamente. La mia unica paura è che qualcuno possa approfittare di questa situazione di incertezza generale per arrecare danni sociali e politici. Di fatto mi sento in una posizione privilegiata perché, nonostante tutto, ho ancora la possibilità di lavorare come artista. Ma è anche vero che questa è l’unica cosa che posso fare. Non ho risposte per tutti quelli che mi chiedono cosa succederà. Come cambierà il tuo lavoro alla luce delle nuove restrizioni? Pensi che creare nuove modalità performative sia un modo di reagire? Non lo so. So solo che non sono sicura che l’immagine, qualsiasi immagine, implicherà semanticamente quello che implicava prima del Covid-19. Pertanto, non sono interessata a produrre performance che inneggino a una ritrovata vicinanza. Non voglio che il mio interesse per la nozione di aggregazione vada in una direzione che sicuramente non è quella che stiamo sperimentando attualmente. Non c’è alcun desiderio di trasgredire o proporre qualcosa di diverso dalle nostre correnti forme di contatto.

C.C.B.: Intendi dire che in questo momento di distanziamento fisico obbligatorio, presentare un’immagine di vicinanza attraverso una performance potrebbe risultare superficiale?
A.I.: Sì. Che senso avrebbe arrogarsi il diritto di proporre una forma di fisicità fatta del sudore di corpi che si toccano? Sarebbe come se gli artisti stessero prepotentemente inventando le proprie regole diverse da quelle a cui siamo tutti soggetti. È una grande perdita il fatto di non poter stare insieme nelle modalità alle quali eravamo abituati. Forse per questo i disegni presenti nella mostra richiamano l’atto del toccarsi e dello stare insieme. Ma lo fanno non necessariamente alludendo alla tenerezza o al tatto. Sono piuttosto suggestioni legate alla danza, alla lotta, a una forma estrema di fisicità e vicinanza. Lo stare insieme non è qualcosa che puoi creare all’improvviso attraverso un supporto digitale o in due stanze su un dispositivo elettronico. È qualcosa molto più complesso.

C.C.B.: Presenterai comunque una performance nel contesto di «Sex»: accompagnerai il «Narciso» di Caravaggio a Roma, restituendolo alla collezione cui appartiene.
A.I.: È quasi come portarlo a casa in una marcia funebre.

C.C.B.: L’immagine dello stare insieme è quindi veicolata da una marcia funebre. È una forma di unione di corpi nell’assenza della vita di un corpo. Uno stare in sieme e una perdita dello stare insieme allo stesso tempo.
A.I.: Penso proprio di sì. È quello che stiamo vivendo, no?

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