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Giorgio Bonsanti
Leggi i suoi articoliPer 30 anni nell’insegnamento del restauro ha regnato la deregulation. Una stortura da correggere
Faccio parte della commissione della «selezione pubblica per l’acquisizione della qualifica di collaboratore restauratore di beni culturali indetta con bando pubblicato il 12/9/14», pertanto sono ovviamente tenuto alla riservatezza e alla discrezione, e le considerazioni seguenti ne terranno conto.
Lavoriamo in un team di cinque, che prevede un funzionario amministrativo in pensione, Raffaele Sassano, e quattro «tecnici» a vario titolo: altri tre pensionati (Pio Baldi, Lidia Rissotto, io) e Stefano de Caro, direttore dell’Iccrom. Ci assistono come segretario Umberto D’Angelo, funzionario bibliotecario presso la Direzione generale Educazione e Ricerca, laureato in Lingua e Letteratura Ungherese, e come esperto informatico Andrea Castagnone. Il direttore generale Educazione e Ricerca, Caterina Bon Valsassina, è sempre discretamente presente a confrontarsi con la commissione. Aggiungo che successivamente, con provvedimento del 16/9/2015, è stato pubblicato anche il bando per l’acquisizione della qualifica di restauratore; della commissione apposita fanno parte Eugenio Vassallo, Pietro Petraroia, Marisa Tabasso, Giovanna Paolozzi Strozzi, Maria Assunta Lorrai.
Il compito che stiamo svolgendo è impegnativo. Le domande per l’acquisizione della qualifica di collaboratore-restauratore sono state quasi undicimila; e chi negli anni aveva seguito l’argomento, non se ne è certo meravigliato: era evidente che avremmo avuto a che fare con grandi numeri.
L’acquisizione della qualifica si ottiene sostanzialmente grazie a due tipi di percorso: il primo, a seconda degli studi seguiti; il secondo, delle competenze professionali maturate. Quanto al primo argomento: sappiamo che l’insegnamento del restauro nel nostro Paese, grosso modo nella trentina d’anni fra il 1980 e il 2010, è stato in preda alla più totale deregulation.
Alle due scuole del Ministero per i Beni culturali definite come «di alta formazione» (Icr e Opificio), altre e multiformi se ne sono affiancate, pubbliche e private; nella perdurante assenza di una legislazione specifica, di attività di sorveglianza e di indirizzo da parte del Ministero, del chiarimento delle competenze spettanti rispettivamente allo Stato e agli Enti locali (la formazione professionale, artt. 117 e 118 della Costituzione e successiva modifica del Titolo V, è prerogativa regionale).
Il quadro è stato reso ancor più complesso con l’ingresso nell’insegnamento delle Università e delle Accademie di Belle Arti; comunque la disciplina è ora regolata dal Decreto n. 87 del 26 maggio 2009, che definisce i percorsi formativi per restauratori e collaboratori restauratori, assimilandoli al modello universitario (lauree quinquennali e lauree brevi triennali). Questo provvedimento, insieme con il suo gemello n. 86, sulla figura del restauratore, oltre rispondere alla sua funzione specifica, ha assunto un grande valore culturale. Quanto alle competenze professionali maturate, il loro riconoscimento è reso difficoltoso dalla frequente incompletezza di documentazione, spesso difficilmente acquisibile dai collaboratori perché chiamati a lavorare in maniera saltuaria, disordinata, a volte anche irregolare.
Quanto ho riassunto fin qui fa sì che il lavoro della nostra commissione, unito ovviamente con il numero stragrande delle domande, risulti particolarmente arduo. Ci è ben chiaro d’altronde che dobbiamo venirne a capo nei tempi previsti.
Lavoriamo senza altro compenso che non la coscienza di rendere un servigio al restauro italiano, consci della responsabilità assunta ma anche che le complicazioni provocate dalla mancanza di regolamentazioni nel passato non dipendono certo da noi; e, qui parlo per me, ne avevo ripetutamente discusso negli anni. Comunque, sono convinto che il meglio sia nemico del bene. Adesso dobbiamo raggiungere un risultato; che non sarà perfetto, ma correggerà e riordinerà per quanto possibile le insufficienze pregresse.
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