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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliNato a Piestany nell’anno di fondazione del Partito Comunista di Slovacchia, artista di spicco dell’Europa dell’Est tra gli anni Sessanta e Ottanta, Július Koller (1939-2007), ha sviluppato un linguaggio concettuale prendendo le distanze dal Governo comunista in un periodo segnato dal Socialismo dal volto umano di Dubcek, sino alla Rivoluzione di Velluto, che nel 1989 portò al crollo del regime comunista in Cecoslovacchia. «Július Koller. One man anti show» è la più vasta retrospettiva mai dedicatagli, organizzata con il Mumok di Vienna e la Galleria Nazionale Slovacca di Bratislava e allestita al Museion fino al 27 agosto. Curato da Daniel Grúň, Kathrin Rhomberg e Georg Schöllhammer, il percorso comprende oltre 600 pezzi tra opere, oggetti, fotografie e materiali d’archivio, allestiti su pareti, pannelli di compensato e una torre ideati dall’architetto viennese Hermann Czech.
Si va dalla definizione di «antihappening», diffusa su telegrammi e cartoline ove l’autore identifica come arte le sue attività pubbliche e private, alla galleria fittizia e inaccessibile fondata nel 1980, sino alle mostre organizzate con artisti amatoriali sul balcone di casa, una dura critica al sistema dell’arte occidentale. Non manca la complessa operazione U.F.O. (Operazioni futurologiche universali), una serie di performance nate dall’impulso di archiviare il mondo, di cui fa parte il ciclo di autoritratti annuali «U.F.O.-naut J.K.» (1970-2007). In questa serie, i quadri oggetto con il punto interrogativo sono simbolo del rapporto tra uomo e cosmo e tra individuo e collettività, mentre il «J.K. Ping-Pong Club» è un tavolo da ping pong per i visitatori: le regole e il fair play dello sport sono la base dell’azione sociale.