«Senza titolo / Untitled» (1960) di Mario Schifano. Collezione privata, Courtesy Gió Marconi, Milano

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«Senza titolo / Untitled» (1960) di Mario Schifano. Collezione privata, Courtesy Gió Marconi, Milano

Schifano tra New York e Milano

Mentre il Robert Olnick Pavillion di Cold Spring inaugura con una sua mostra, la Fondazione Marconi e GióMarconi ne celebrano l’estro con i suoi lavori su carta

La prima mostra personale presentata dallo Studio Marconi a Milano, nel dicembre 1965, subito dopo la collettiva inaugurale, fu quella di Mario Schifano (1934-1998). Da allora, il grande gallerista Giorgio Marconi restò lungamente al fianco dell’artista («un vulcano geniale bugiardo bello generoso infedele elegante frenetico asociale vorace affabulatore insaziabile incosciente pazzo scatenato che voleva tutto», nei suoi ricordi), dedicandogli mostre e monografie miliari.
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Ora sono la Fondazione Marconi, da lui istituita nel 2004, e GióMarconi, la galleria del figlio, oggi fuse in un’unica realtà, a presentare in via Tadino 15 l’importante retrospettiva «Mario Schifano TUTTO nelle carte...», curata da Alberto Salvadori, in contemporanea con la mostra «Mario Schifano: The Rise of the ‘60», promossa da Magazzino Italian Art di Nancy Olnick e Giorgio Spanu, e curata da Salvadori stesso per l’apertura del Robert Olnick Pavillion, il nuovo spazio espositivo di Magazzino, a Cold Spring, New York.

La mostra milanese, che evoca nel titolo tanto la personale «Tutto» del 1963, alla galleria Odyssia di Roma, quanto il progetto postumo del 2001, romano anch’esso, con la mostra e il film omonimi (quest’ultimo, di Luca Ronchi, fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia), appunta la propria attenzione sui lavori su carta degli anni ‘60, i più fecondi e felici della sua vicenda artistica, essendo le carte di quel decennio non solo fitte e numerose ma fondanti nel lavoro di Schifano.

Qui è esposta una selezione dei cicli più noti, gli stessi che l’artista andava affrontando anche sulla tela, dai «Monocromi», del 1960, fino a «Compagni compagni» del 1968. Fra i due estremi, i «Paesaggi anemici», «Futurismo rivisitato», «Ossigeno ossigeno» e «Oasi».
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Onnivoro e prensile com’era, capace di cogliere acutamente, e in presa diretta, le novità della società che stava prendendo forma negli anni del dopoguerra, Schifano seppe elaborare un linguaggio parallelo a quelli della Pop Art e del New Dada ma non debitore di quelli, in cui attingeva ai modi dei pittori d’insegne come alla segnaletica stradale, alla pubblicità come ai film e alla vita quotidiana, mentre riempiva la sua casa di pile di giornali e riviste del mondo intero e teneva costantemente accesi più e più schermi televisivi per nutrire la sua «fame» di vita con le loro immagini.

Immagini che poi manipolava secondo quei personalissimi percorsi mentali con cui tracciava la geografia del nuovo paesaggio, umano e urbano, degli anni ’60, gli anni di cui è stato uno degli interpreti più efficaci e talentuosi.

Giorgio Marconi e Mario Schifano, Studio Marconi, Milano 1966 Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati

Ada Masoero, 20 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

Schifano tra New York e Milano | Ada Masoero

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