Fatma Bucak è di origine curda e la sua arte è politicamente impegnata, mescola poesia e denuncia per affrontare questioni che sono sì universali, ma anche di cocente attualità. È nata nel 1982 a Iskenderun (sul confine tra Siria e Turchia), ha studiato filosofia all’Università di Istanbul, grafica d’arte all’Accademia Albertina di Torino e fotografia al Royal College di Londra.
La sua prima personale in un museo italiano (il suo gallerista di riferimento nel nostro Paese è Alberto Peola di Torino) si svolge dal 7 marzo al 20 maggio alla Fondazione Merz e s’intitola «So as to find the strength to see», che significa: «Per trovare la forza di vedere». Dove? Dove gli altri non guardano. Video, fotografie, installazioni sonore, performance e sculture, selezionate dalle curatrici Lisa Parola e Maria Centonze, danno voce a cronache dimenticate, pensieri taciuti, punti di vista di minoranze etniche e politiche, come quella dei curdi barbaramente repressa dai militari turchi.
Vicende su cui riflettono opere come «Black Ink», realizzata con l’inchiostro ricavato dalle ceneri di un libro bruciato insieme al magazzino di una casa editrice indipendente curda, o «342 Names», ricavata da una pietra litografica in cui l’artista ha inciso ripetutamente i nomi di 342 vittime di sparizioni forzate verificatesi in Turchia dopo il colpo di Stato del 1980: l’illeggibilità dei nomi suggerisce l’impossibilità per queste storie di essere raccontate.
Tra i lavori in mostra anche «Damascus Rose», 40 rose trasportate dalla Siria per essere reimpiantate a Torino, efficace simbolo dei rifugiati di guerra, ed «Enduring nature of thoughts», opera composta da dieci catini alimentati dal rumore di uno stillicidio, una messa in scena che crea l’illusione di percepire una perdita, di osservare qualcosa che non è reale, come a metterci in guardia dalle manipolazioni e omissioni.