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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoli«Gravido di province intere»: così Samuel van Hoogstraten, suo primo biografo, definiva Hercules Segers (così firmava i suoi quadri, anche se è più comunemente detto Seghers) riferendosi all’incontenibile visionarietà del suo collega e conterraneo, capace di dar vita a un universo di rupi e precipizi, orizzonti e lande laviche e desolate, oppure travolte da misteriose immani catastrofi: paesaggi che paiono di altri pianeti. Sono del tutto da verificare le ipotesi secondo le quali l’incisore e pittore (per una volta l’arte «minore» precede a buon diritto la sorella maggiore) seicentesco avrebbe viaggiato nelle Alpi svizzere, nel Tirolo o negli Appennini, zone da cui, lui nato nelle pianure «assolute» dell’Olanda, avrebbe tratto ispirazione. Più probabilmente, i suoi paesaggi montuosi hanno più a che fare con la tradizione paesaggistica fiamminga e olandese di tarda estrazione manierista: Brueghel il Vecchio, Joos de Momper e naturalmente il suo maestro Gillis van Coninxloo possono essere considerati tra le possibili fonti. Ma nelle mani di Seghers quella tradizione diventa materiale magmatico e ribollente, da stravolgere e drammatizzare in una visione totalmente moderna.
La mostra aperta dal 7 ottobre all’8 gennaio al Rijksmuseum, che con il British Museum di Londra possiede il più ampio nucleo di sue incisioni, è l’occasione non solo per mettere a confronto il pittore e l’incisore ma anche per vedere fogli che raramente escono dalle cassettiere del fornitissimo Gabinetto delle Stampe di Amsterdam. Acqueforti, inutile dire, totalmente irreperibili sul mercato. Sono esposti un’ottantina di oli e 110 stampe ottenute, con varianti, dalle 54 matrici incise da Seghers, nessuna delle quali è sopravvissuta. Un suo rame, in particolare, entrò in possesso di Rembrandt, che ne modificò il soggetto, tramutando un paesaggio con Tobiolo e l’Angelo in una fuga in Egitto. La pittura (tre le nuove attribuzioni in mostra, tutte riferite a dipinti di collezione privata) si discosta da quella dei contemporanei paesaggisti per i drammatici contrasti tra ombre e luci e per una scabra, allucinata atmosfera. Ma è nell’incisione che emerge l’innovatore totale. Il mordente del grande acquafortista scava abissi ed erige fantascientifiche montagne, coagula telluriche distese di rocce e alberi schiantati e colloca in questo pianeta instabile, in questa natura pietrificata eppure in perenne metamorfosi, sparute e minuscole figure.
Uno dei fattori decisivi è la tecnica: gli studiosi del British Museum hanno recentemente asserito che sia stato il primo a utilizzare la cosiddetta «maniera a zucchero», complesso procedimento che dà luogo a un segno più rotto, largo e tormentato, una tecnica che sarebbe stata riutilizzata solo nel XVIII secolo (e ampiamente sfruttata, nel ’900, da Picasso). Ma non è affatto escluso che il crepitante ductus seghersiano si debba alla reazione o all’uso più o meno improprio di cerature e vernici, laddove lo sperimentalismo si coniuga con l’accidentalità compensata dal furor creativo. In altri casi la non perfetta tenuta della base cerosa o bituminosa sotto l’azione del mordente dà origine a impreviste «epifanie» nei cieli seghersiani, al pari di segni non cancellati da una lastra riciclata. Paesaggi privi di prospettiva aerea assumono così la conformazione di folli cartografie (nell’Olanda del Secolo d’Oro, ossessionata dalla mappatura geografica), anatomie del paesaggio (o paesaggi come anatomie) che trovano il loro riscontro poetico nei versi dell’elisabettiano John Donne in «Inno a Dio, il mio Dio, nella mia infermità».
Van Hoogstraten contribuì alla leggenda di Seghers, arricchendone la biografia con particolari che avrebbero contribuito a riavvicinare, dopo l’oblio, i romantici (e oggi un neoromantico come il regista tedesco Werner Herzog) a questo loro lontano precursore. Incerte rimangono le date di nascita a Haarlem tra il 1589 e il ’90 e di morte, forse all’Aja nel 1938, a seguito, narra Van Hoogstraten, di una caduta dalle scale per ubriachezza. In mezzo, una vita presumibilmente tormentata anche dai debiti, a causa dei quali dovette vendere la sua grande casa acquistata nel 1619 ad Amsterdam, nonostante i dipinti, al contrario delle incisioni, godessero di un certo successo (lo stesso Rembrandt ne possedeva alcuni). Il biografo aggiunge altri particolari, come l’abitudine di stampare alcune matrici sulla tela fornita dalle lenzuola domestiche nel tentativo di fare dell’incisione (colorata) una sorta di dipinto serializzabile.
Fu il primo, spiegano ora gli studiosi olandesi, a utilizzare carte orientali per stampare le sue incisioni, come avrebbe fatto in seguito lo stesso Rembrandt, e a stampare su fogli precedentemente colorati. L’estrema rarità del corpus incisorio giunto sino a noi si deve sostanzialmente a due ragioni: molte incisioni colorate (a mano, giacché le tecniche della tricromia in stampa erano di là da venire), soprattutto quelle impresse su tela, venivano appese dai loro acquirenti alle pareti (anziché essere conservate in cartelle) con logico, conseguente logorio delle opere per la luce e i fumi; nel periodo di massima sfortuna critica, inoltre, altri suoi fogli sarebbero stati utilizzati come carta da pacchi. Ma al di là del fascino del genio maledetto (si diffuse persino la voce che portasse sfortuna comprare le sue stampe), resta una figura che si rese protagonista (magia dello Zeitgeist) della più raffinata e moderna cultura barocca, in linea con il materismo, la metamorfosi e con la poetica della natura naturans e dell’infinito che percorse tutta la sua epoca, da Giordano Bruno a Bernini e a Guarini.