Nella filosofia del linguaggio si definisce performativo ogni atto attraverso cui si modifica la realtà con la sola forza delle parole. L’esempio classico è l’affermazione «io vi dichiaro marito e moglie», con cui il celebrante crea un nuovo nucleo familiare con la semplice formula rituale. Questa teoria è stata traslata nel campo artistico, leggendo come performativa ogni opera che con la sua esistenza, con il proprio atto visivo vuole cambiare lo status quo. Si tratta di una visione che supera l’annoso dibattito su quanto l’arte debba essere politica e affrontare le turbolenze della nostra contemporaneità. Perché se identificare come arte politica le azioni attiviste o dichiaratamente militanti è immediato, lo è meno riconoscerla come tale quando non parla apertamente di società, scegliendo di manifestare la propria «performatività» in altro modo.
In questa cornice allargata si inserisce la mostra «L’intimità è politica» al El MetQUITO - Centro Cultural Metropolitano di Quito, in Ecuador, visitabile fino al 29 ottobre. La curatrice Rosa Martínez ha orchestrato una narrazione attorno al genere e al linguaggio come campi di battaglia in cui le individualità lottano per la propria affermazione e per ridefinire equilibri sociali e dinamiche politiche. Diciassette gli artisti coinvolti. Aprono le danze le Guerrilla Girls, il gruppo che, dalla metà degli anni Ottanta, indaga il ruolo (subalterno) delle artiste nelle istituzioni artistiche. Accanto, Marina Abramovic, con «8 Lessons of Emptiness with a Happy End/Family Portrait», lavoro dedicato alla rappresentazione della violenza nei mass media, e Regina José Galindo, con l’installazione «No Violarás», con cui l’artista denuncia la violenza sessuale all’interno dei gruppi familiari.
A questi si aggiungono «146 mujeres» di Santiago Sierra e gli interventi delle giovani Amal Kenawy, Juana Córdova, Priscilla Monge, Saskia Calderón, dove la denuncia si amplifica in un lirismo emotivo, e quelli di Nora Pérez, Cristina Lucas e Núria Güell, che scelgono la stessa «istituzione Arte» come campo in cui sviluppare le tematiche di genere. Santiago Reyes e Zanele Muholi ampliano la riflessione alle questioni «queer», il primo portando nello spazio museale l’intimità di una relazione omosessuale, la seconda con le celebri serie fotografiche in cui i ritratti della comunità Lgbt divengono affermazioni identitarie.
L’intervento di Sandra Monterroso accende i riflettori sulla minoranza maya e Katia Sepúlveda coinvolge nella sua performance le prostitute del Pascha di Colonia. Infine, con i collettivi «Mujeres Creando» e «Mujeres y hombres de comunidades indígenas zapatistas de Chiapas», la riflessione si fa azione attivista, prendendo le forme di una rivendicazione partecipata.
In un pendolo che oscilla dalla delicatezza dell’intimità individuale alla denuncia del corpo sociale che rivendica la propria identità, la collettiva offre uno spaccato articolato e vivo dell’impegno politico della comunità artistica internazionale.