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Un artista fondamentale nell’evoluzione dell’arte performativa e della Body art
- Federico Florian
- 20 novembre 2020
- 00’minuti di lettura


«S’he» (1973-74) di Ulay. © Cortesia della Ulay Foundation
Allo Stedelijk una retrospettiva di Ulay
Un artista fondamentale nell’evoluzione dell’arte performativa e della Body art
- Federico Florian
- 20 novembre 2020
- 00’minuti di lettura
Federico Florian
Leggi i suoi articoliAll’ora di pranzo del 12 dicembre 1976, Ulay (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen) fuggiva dalla Neue Nationalgalerie di Berlino con un dipinto in mano, «Il povero poeta» di Carl Spitzweg. Più che di un furto si trattava di una performance: la meta finale dell’artista era la casa di un’umile famiglia turca, che avrebbe appeso il quadro in salotto. Poco dopo quest’azione, che gli valse una multa salatissima, Ulay incontrò Marina Abramovic, con la quale instaurò una partnership durata dodici anni.
A otto mesi dalla sua morte, lo Stedelijk Museum dedica un’importante retrospettiva all’artista tedesco (dal 21 novembre al 18 aprile). Una pratica, quella di Ulay, che occupa le intersezioni tra fotografia, arte concettuale, performance e Body art, e che trovò in Amsterdam, dove si trasferì alla fine degli anni ’70, una perfetta fucina creativa.
Tra le opere esposte, le polaroid dalla serie «S’he», in cui l’artista esplora e spinge ai limiti estremi la nozione di genere attraverso autoritratti sotto duplice travestimento, e le documentazioni delle sue azioni a metà tra performance e Land art, nelle quali facciate di interi edifici venivano ricoperte da gigantesche immagini fotografiche.
Una mostra che si propone di riconoscere Ulay, al di là delle sue più note collaborazioni con la Abramovic, come un attore fondamentale nell’evoluzione dell’arte performativa e della Body art nel secondo ’900. «Considerato l’interesse crescente verso la performance, dichiara il direttore Rein Wolfs, è tempo di rivalutare la storia della disciplina e riportare in luce gli artisti che l’hanno plasmata: Ulay è proprio uno di questi, avendo usato deliberatamente e consapevolmente la propria identità e il proprio corpo come medium».

«S’he» (1973-74) di Ulay. © Cortesia della Ulay Foundation