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Valentina Furian, 55, film frame, courtesy the artist

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Valentina Furian, 55, film frame, courtesy the artist

Un viaggio nel futuro postumano con Valentina Furian, tra video, VR e performance

Dopo la mostra a Palazzo Re Rebaudengo a Guarene e in attesa della Quadriennale di Roma e del debutto in realtà virtuale a Lo schermo dell’arte, l’artista racconta la sua pratica fatta di video, performance e paesaggi sonori che attraversano frontiere, corpi e ombre

Lucia Aspesi, Fiammetta Griccioli

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Valentina Furian (Venezia, 1989), tra le artiste selezionate per la prossima Quadriennale di Roma, ha appena concluso il 20 luglio la sua mostra personale Hai mai visto due animali che si scontrano? al Palazzo Re Rebaudengo di Guarene. Curata da Yueh-Ning Lee nell’ambito del Young Curators Residency Programme, la mostra ha presentato una serie di opere inedite che esplorano il rapporto tra umano e più-che-umano, muovendosi tra soglia e sospensione, vulnerabilità e potere. Ispirata al romanzo Le venti giornate di Torino di Giorgio de Maria, Furian ha costruito uno scenario speculativo in cui immagini in movimento, installazioni temporali e monumenti ibridi abitano il confine tra realtà e finzione, giorno e notte, memoria e presente. La sua pratica, centrata sulla performatività animale e sullo sguardo postumano, mette in discussione le gerarchie tra le specie e interroga la fragilità dei corpi in un paesaggio emotivo e politico segnato da crisi latenti. Parallelamente, Furian è al lavoro su un progetto inedito in realtà virtuale che sarà presentato a novembre da Lo schermo dell’arte. L’opera nasce all’interno del Progetto PNRR ONFOODS in collaborazione con l’Università di Pavia, un’ulteriore occasione per espandere la sua ricerca su potere, ecologie e tensioni invisibili.

 Nell’approcciare il tuo lavoro ci siamo imbattute in termini oggi molto urgenti come interspecie e domesticazione. Nei tuoi video ricorrono inoltre soggetti appartenenti alla sfera animale, come cani e cavalli, che sembrano portali verso altre dimensioni, mentre le figure umane sono quasi inesistenti. Potresti raccontarci da dove ha origine il tuo lavoro e il modo in cui affronti queste tematiche?
Penso che il mio rapporto con le moving-images sia nato dalla necessità di abitare una condizione nomade. Il film mi offriva la possibilità di muovere il mio lavoro insieme a me. Trovo pertinente pensare alle mie opere come a dei portali, non solo dispositivi di attraversamento, ma soglie sensibili tra realtà e immaginazione. Le immagini in movimento sono presenze sospese tra ciò che esiste e ciò che desidero, tra la percezione del reale e la sua trasfigurazione. Dopo anni con il formato digitale, ho cominciato ad avvertire un senso di vuoto, come se mancasse un corpo, un peso. È così che ho deciso di restituire al video una dimensione tangibile. Fare questo lavoro, per me, significa anche aprirsi a una relazione interspecifica: con l’altro, con l’animale, con il sovra umano, con ciò che resiste alla categorizzazione: creature nuove, figure autonome, a volte inquietanti, a volte familiari. È nel confronto con queste presenze che si gioca, ogni volta, l’esperienza della mia pratica.

Valentina Furian ph Alberto Nidola

Valentina Furian, Ciacco, backstage photography, ph. Zoe Paterniani, courtesy the artist

Tornando all’immagine del portale, guardando il tuo lavoro ci vengono in mente le decorazioni dei battenti dei portoni delle chiese gotiche o romaniche, ma anche quelle sculture ieratiche adagiate sulla soglia delle porte di alcune città dell’Antica Grecia, per esempio. Si tratta in ogni caso di figure che custodiscono un luogo. Pensiamo a Presente (2018), uno dei tuoi primi video.
Presente introduce, in questo caso, una nuova e importante declinazione del concetto di portale: quella temporale. Lavorare con le immagini in movimento significa, per me, creare passaggi continui tra passato, presente e futuro. Il video diventa il segno tangibile di un tempo trascorso. Eppure, non è mai concluso. Rimane aperto, vulnerabile alle trasformazioni che ogni nuova visione può generare. Presente è stato realizzato nel 2018 per il Museo MAMbo, nell’ambito della mostra That’s IT!, a cura di Lorenzo Balbi. Ho deciso di indagare la soglia, intesa come punto di intersezione tra essere spettatore, essere soggetto ed essere opera. La camera ha accompagnato l’incontro perturbante tra l’asina bianca e lo spazio espositivo ancora vuoto, destinato ad accogliere la mostra. L’animale, con la sua presenza solenne si muove nella galleria, le cui pareti semi tinteggiate e le impalcature indicano l’allestimento in corso della mostra in cui poi l’opera è stata effettivamente presentata: ha invertito i ruoli, ciò che guardiamo ci guarda, e ciò che crediamo di osservare attiva invece domande sul nostro stesso atto del guardare.

 Nelle tue riprese e spesso nelle tue mostre c’è una precisa relazione tra l’oscurità e l’utilizzo di fonti luminose. L’atmosfera che si percepisce sembra propagare quella emanata dagli stessi video, dove elementi come il fuoco, la nebbia e l’utilizzo di tecniche di ripresa come la camera a infrarossi restituiscono una realtà frammentata che sfugge al nostro controllo. Qual è il tuo approccio alla presentazione spaziale dei tuoi video?
Spesso l’atto di filmare inizia nel buio. Non si tratta solo di un’impostazione tecnica o estetica, ma di una condizione primaria, quasi originaria. È lì, nell’assenza di luce, che inizia la mia relazione con ciò che filmerò. Quando i miei lavori si manifestano, lo fanno quasi sempre tornando nel buio, diventando apparizioni, presenze sospese tra ciò che è reale e ciò che è evocato. Incontrarli attiva un’esperienza che non è solo visiva: è spaziale, acustica, talvolta straniante, e soprattutto fisica. L’architettura dell’allestimento diventa essa stessa un linguaggio che dialoga con il contenuto visivo e sonoro, ne estende il significato. Lo spettatore è chiamato a entrare fisicamente in uno spazio buio per assistere a una visione, accettare una sospensione, un abbandono temporaneo delle coordinate abituali.

 Tra gli ultimi luoghi che hai esplorato c’è quello della grotta, dove hai realizzato le riprese di AAAAAAA (2025). Ci raccontavi che per te la speleologia è una disciplina per «andare oltre la via già tracciata». Pensiamo che il tuo lavoro contenga un aspetto performativo molto rilevante nel contesto odierno, dove emergono zone di transizione tra sorveglianza e controllo, addomesticazione e vulnerabilità. Puoi parlarci della relazione nella tua pratica tra immagine in movimento e performance?
Èil nodo centrale della mia pratica: guardo al mio lavoro con le immagini in movimento come una parte inscindibile dalla pratica performativa. Il momento delle riprese è un tempo irripetibile che si costruisce insieme a chi mi accompagna in questi viaggi temporanei, siano essi presenze umane o più che umane; è un rituale che prende forma nell’ignoto. Proprio questa soglia dell’inaspettato è ciò che mi attira, ogni volta, dentro il buio da cui partono i miei film. C’è una carica quasi erotica in quel momento: una tensione tra previsione e sorpresa, tra controllo e abbandono. E se il set rappresenta la fase vivente e porosa del processo, è attraverso il montaggio, sonoro e visivo, che il materiale viene in qualche modo addomesticato. Il montaggio è il nostro atto politico: è lì che si traccia il confine tra il pubblico e il privato, tra documento e fantasma. Nei miei ultimi film lavoro con la film editor Benedetta Marchiori, con cui è nata una bellissima collaborazione dal 2021.

Valentina Furian, Presente, film frame, courtesy the artist

Valentina Furian, Ciacco, installation view at Mattatoio Roma, courtesy the artist and Azienda Speciale PalaExpo

Vorremo inoltre soffermarci sui paesaggi sonori delle tue opere, che in realtà sono importanti tanto quanto gli elementi visivi. Nel video 55 (2019) ad esempio il suono non è solo il latrato di un cane: è parte di un loop più ampio, dove gli elementi ambientali - riverberi, rumori industriali o naturali - vengono manipolati in un soundscape che si avvicina alle frequenze della musica techno. In che modo ti approcci a questa dimensione?
Una parte fondamentale della post-produzione è dedicata a un lavoro accurato, quasi chirurgico, sulla componente sonora. In 55 (2019), film prodotto da Fondazione Elpis per la mostra Immersione Libera a cura di Giovanni Paolin, ho collaborato con Michele Braga, abbiamo lavorato su una traccia sonora di durata più estesa dell’immagine che è invece costruita su un loop, questa scelta inganna l’orecchio e crea la percezione di una durata più dilatata. In tempi più recenti, ho avviato una collaborazione continuativa con Guido Modanese. Insieme lavoriamo spesso partendo da registrazioni fatte nel set per poi trasformarle in texture più astratte. La techno è un genere musicale che ha segnato profondamente la mia formazione sensoriale, nel modo di intendere il suono come uno spazio psicofisico. Ancora oggi, questa grammatica sonora continua a nutrire le notti della mia vita e dei miei film.

 Proprio in questi giorni stai girando MOON, un nuovo lavoro che a differenza di tutti i tuoi video precedenti si rapporta con una forma cinematografica precisa, il western. Cosa significa per te oggi realizzare un film che affronta il tema della frontiera?
Moon nasce da un periodo di residenza al Delta del Po veneto. L’esperienza è stata straniante: la sensazione di trovarmi simultaneamente in un luogo familiare e al contempo completamente nuovo mi ha indotto a leggere quel territorio attraverso le lenti del western. Il Delta, nella sua condizione geografica di margine si configura come una frontiera fragile, un ecosistema in equilibrio precario. Il film sarà presentato in anteprima al micro-festival Sedimenta.

Valentina Furian, Aaaaaaa, installation view at Art City 2025, ph. Daniele Signaroldi, courtesy the artist and Museo MAMbo

Valentina Furian, Aaaaaaa, installation view at Art City 2025, ph. Valentina Caffarotti, courtesy the artist and Museo MAMbo

Lucia Aspesi, Fiammetta Griccioli, 22 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

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