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Roger Ballen, «Five hands», 2006 (particolare)

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Roger Ballen, «Five hands», 2006 (particolare)

Roger Ballen e i suoi animali, tra istinto primordiale e pensiero razionale

Nel Padiglione 9A del Mattatoio di Roma sono allestite 21 fotografie analogiche del fotografo newyorkese e otto proiettori asincroni che animano oltre 80 immagini iconiche tratte da cicli seminali 

In concomitanza della mostra «Animalism» (aperta dal 27 maggio al 27 luglio presso il Padiglione 9A del Mattatoio di Roma), abbiamo incontrato Roger Ballen (New York, 1950), uno degli artisti più incisivi e iconici del nostro tempo. Le sue opere favoriscono discese entro un’esperienza immersiva che si impossessa dello spazio espositivo, l’ex macello trasformato in un palcoscenico della mente subconscia, in una profonda indagine sul rapporto tra l’essere umano e la natura animale.

La mostra, a cura di Alessandro Dandini de Sylva in collaborazione con Marguerite Rossouw, si articola in una progressione spaziale e concettuale che dilata la percezione e manipola la temporalità. La sezione inaugurale presenta una selezione di 21 fotografie analogiche (1996-2016), caratterizzate da un rigore compositivo e da una estetica del bianco e nero distintiva. Successivamente, lo spettatore è condotto in un ambiente immersivo, avvolto nell’oscurità, dove otto proiettori asincroni animano oltre 80 immagini iconiche tratte da cicli seminali quali «Outland», «Shadow Chamber», «Asylum of the Birds» e «Roger’s Rats». La conclusione del percorso è affidata alla serie «Apparitions», un’indagine sulla dissoluzione dell’immagine attraverso lightbox, videoanimazioni e forme visive, che transitano fluidamente tra la pittura, la dimensione onirica e l’allucinazione. Le strategie visive di Ballen, evolvendo da una fase inizialmente documentaria verso scenografie allucinatorie e opere ibride di natura quasi pittorica, trascendono la mera funzione di registrazione oggettiva del reale, configurandosi come potenti strumenti di scavo nell’identità e nelle dinamiche dell’inconscio.

Nella mostra «Animalism» esplora il complesso rapporto tra esseri umani e animali, ciò che rimane oscuro degli istinti primordiali. In che modo ha sviluppato questi temi attraverso le opere esposte, e come dialogano con il luogo e con le tensioni tra istinto e ragione, familiarità e alterità? 
Il rapporto tra uomini e animali è un tema centrale del mio lavoro da decenni. Ha molteplici significati. Mi interessa il modo in cui gli animali incarnano l’Id (quel nucleo grezzo e istintuale della psiche), l’umano all’interno dell’animale. Allo stesso tempo, gli animali agiscono spesso come estensioni dell’identità e della psicologia umana. Hanno sempre avuto un significato simbolico e archetipico. Ma, allo stesso tempo, rimangono anche profondamente «altri»: creature su cui ci proiettiamo, ma che non possiamo mai comprendere appieno. Nelle mie immagini c’è questa oscillazione tra familiarità e stranezza. In «Animalism» esploro il conflitto tra uomo e animale e le corrispondenti tensioni tra istinto e ragione, tra primordiale e civilizzato. Il Mattatoio è stato costruito per contenere e gestire la violenza che sottende il rapporto della società con il primordiale, per regolare il rituale dell’uccisione per il cibo. Attraverso questa violenza di routine, socialmente accettata, creiamo l’illusione di controllare la vita, la morte e l’animale dentro di noi. Così facendo, siamo in grado di sopprimere ciò che non vogliamo vedere. Per me il mattatoio funziona come una camera d’eco psicologica. La morte, l’istinto, la sottomissione e il dominio sono specchi in cui si riflette qualcos’altro, elementi radicati nel profondo dell’inconscio. Forse l’inquietante assurdità (o disorientamento) di queste immagini deriva dal fatto che non ci riconosciamo più in quegli specchi.

Quando rende partecipi gli animali nelle sue immagini, come riesce a bilanciare l’intenzione artistica con l’imprevedibilità della loro natura?
Gli animali operano in base all’istinto, sono esistenzialmente «puri». Forse questo è uno dei motivi per cui sono così fondamentali per il mio lavoro. Disturbano l’artificio e ci ricordano qualcosa di antico in noi stessi. Io creo ambienti in cui la loro presenza può diventare simbolica. Li invito a entrare nello psicodramma.

Ci può parlare del suo approccio alla traduzione formale di una successione di cose e di accadimenti, una dopo l’altra, causata da molte imprevedibilità? In questo caos creativo c’è un momento in cui sente che le possibili variabili hanno trovato il loro equilibrio, o è la tensione irrisolta tra gli elementi che dà alle sue immagini la loro peculiare «potenza»?
Sia l’equilibrio sia la tensione conferiscono alle mie immagini la loro forza. Quando creo una fotografia, mi trovo a navigare in una serie di elementi imprevedibili: movimento, luce, struttura, gesto, emozione. Succede una cosa dopo l’altra, spesso al di fuori del mio controllo. Ho sviluppato un istinto per capire quando questi elementi iniziano a parlare tra loro, quando, nonostante l’apparente disordine, prende forma una struttura visiva. Tuttavia, all’interno di questo ordine, cerco anche un’instabilità o una spigolosità. L’immagine deve reggersi insieme e allo stesso tempo sentirsi sull’orlo del collasso. Prendiamo ad esempio la mia opera intitolata «Twirling Wires». Il fascio di fili sopra la figura sembra selvaggio e aggrovigliato, quasi come se potesse cadere a pezzi, ma è stato accuratamente posizionato per riempire la parte superiore dell’immagine e per proiettare ombre forti e drammatiche. In basso, la persona è avvolta in un tessuto ruvido e guarda verso l’alto con un’espressione difficile da leggere: forse spaventata, forse stupita. L’illuminazione è dura e spietata e mostra ogni crepa e segno sul muro. Sembra che tutto possa cadere da un momento all’altro.

Roger Ballen, «Eugene on the phone», 2000

Quali strategie specifiche impiega nel suo lavoro per superare la tendenza della fotografia a concentrarsi sul contenuto a scapito della coesione organica, e per creare immagini che abbiano il potere di trasformare la coscienza dei fruitori?
Sono uno dei pochi fotografi che parte dalla forma, non dal contenuto. È sempre stato il mio approccio. Se la struttura formale non funziona, se le forme, le linee, i toni e le relazioni spaziali non sono coerenti, la fotografia non avrà forza. Ogni elemento nell’inquadratura deve dialogare con gli altri. Questo è il primo passo: creare un linguaggio visivo unificato. Se anche un solo oggetto (come un vetro riflettente su un tavolo) disturba lo sfondo o interrompe il flusso della composizione, può compromettere tutta l’immagine. La mia idea è che la forma sia il fondamento del significato fotografico. Spesso ci si concentra solo sul soggetto, dimenticando l’architettura visiva che dà forza all’immagine. La fotografia, come la boxe o il golf, è fatta di precisione e controllo. Se la forma è solida, tutto ha una possibilità di risuonare in profondità: emozione, tensione psicologica, impatto. Una volta che la forma è lì, mi chiedo: questa immagine comunica qualcosa che va oltre l’estetica? Posso spingerla oltre? Può diventare qualcosa di più enigmatico, di più intenso? È questa la sfida. La ripresa fotografica avviene in un istante, ma bisogna trasformare quell’istante in qualcosa che sembri inevitabile. A volte una figura lampeggia, un animale si muove, un’ombra cade: non puoi pianificarlo. Ma spesso è proprio lì che nasce l’immagine. Penso che sia la convergenza tra struttura e spontaneità a definire davvero la potenza di una fotografia.

Soffermiamoci sulla giustapposizione tra gli elementi disegnati, che spesso evocano un’alterità, e la natura tradizionalmente «reale» della fotografia. Cosa la affascina di questa combinazione e come intende sfidare la nostra percezione di realtà e finzione nelle tue opere? In che modo la sua precedente esplorazione del medium pittorico ha influenzato il suo approccio all’introduzione di elementi disegnati nel contesto fotografico?
La combinazione di disegno e fotografia nel mio lavoro è un modo per sconvolgere il modo in cui normalmente vediamo e interpretiamo le immagini. Spesso le persone guardano le fotografie come se fossero finestre sulla realtà, qualcosa da guardare e a cui credere. I disegni, invece, sono intesi come espressivi, simbolici, più legati al mondo interiore. Quando inserisco i segni dei disegni nelle mie fotografie, creo uno spazio in cui questi confini crollano. Lo spettatore non è sicuro di cosa sia reale e cosa invece immaginato. Le linee (graffiate, scarabocchiate o dipinte) sono come espressioni visive dell'inconscio. Portano una sorta di energia grezza e istintiva nella fotografia, e spesso sembra che siano stati i soggetti stessi a farle. Questi segni cambiano lo spazio dell’immagine: appiattiscono la profondità, disturbano la prospettiva. In primo luogo, credo che trasformino la fotografia in uno spazio psicologico piuttosto che in una semplice rappresentazione del mondo. Anche la pittura ha influenzato il mio lavoro, soprattutto l’atto fisico di fare un segno. Nella pittura, di solito si cerca di creare un’armonia, di dare un senso di unicità alla superficie. Il pennello si muove sulla tela in modo da fondere insieme colori e forme. Il pennello si muove sulla tela in modo da fondere insieme i colori e le forme; la pittura viene usata per costruire una superficie che sembri intera, in cui ogni parte sostiene le altre. Riprendo alcuni di questi gesti, come la stratificazione, la spalmatura o l’aggiunta di colore, ma li uso in modo diverso. Nelle mie recenti Polaroid colorate, la pittura si trova sopra la fotografia come se fosse qualcosa di aggiunto o addirittura imposto. La pittura sopra una superficie fotografica non si fonde assolutamente con essa. A volte può sembrare che interrompa o disturbi la fotografia. Fa sì che lo spettatore si fermi e si interroghi su ciò che sta vedendo. Non cerco di creare un’armonia, ma una tensione. Per me, l’immagine diventa più potente quando sembra instabile, quando gli elementi non si risolvono del tutto. L’instabilità è ciò che porta l’energia psicologica in superficie.

Il suo processo creativo sembra refrattario alle definizioni verbali, quasi un’entità sfuggente che scaturisce direttamente dal subconscio. Potremmo dire che le sue fotografie non rappresentano tanto qualcosa, ma piuttosto sono esse stesse manifestazioni di quell’«enigma» o stato mentale «misterioso» che cerca?
Sì, sembra che lei alluda all’idea che si possa usare la fotografia per documentare il mistero. Si potrebbe, ad esempio, fotografare un ambiente strano o consueto e poi presentarlo allo spettatore, come a dire: «Ecco il mistero, cerca di analizzarlo da solo come se fosse un oggetto, un fenomeno esterno a te». A mio avviso, questo non è molto meglio che sperimentare qualcosa di misterioso nella propria vita ordinaria e semplicemente indicarlo. Voglio invece che le mie fotografie incarnino, anziché illustrare. Sono il mistero, coltivano un’esperienza diretta di disorientamento e tensione.

Roger Ballen, «Wall shadows», 2003

Mauro Zanchi, 26 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Roger Ballen e i suoi animali, tra istinto primordiale e pensiero razionale | Mauro Zanchi

Roger Ballen e i suoi animali, tra istinto primordiale e pensiero razionale | Mauro Zanchi