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Petrit Halilaj, «Syrigana: An Opera in Five Acts», Syrigana, Kosovo, 29 giugno 2025

Courtesy of the artist. Photo: Arben Llapashtica

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Petrit Halilaj, «Syrigana: An Opera in Five Acts», Syrigana, Kosovo, 29 giugno 2025

Courtesy of the artist. Photo: Arben Llapashtica

Petrit Halilaj: «Vivere la guerra non porta soluzioni»

All’Hamburger Bahnhof la prima grande personale istituzionale a Berlino dell’artista kosovaro, incentrata sulla sua prima opera lirica «Syrigana» 

Dal 11 settembre al 31 maggio 2026, l’artista kosovaro Petrit Halilaj è protagonista della sua prima personale istituzionale a Berlino all’Hamburger Bahnhof. Il fulcro della mostra è la prima opera lirica dell’artista, «Syrigana», sviluppata con la Kosovo Philharmonic, fondata dopo la fine della guerra del Kosovo nel 2000. L’opera in cinque atti, la cui storia e il cui libretto si devono a Amy Zion e Doruntina Basha (è la reinterpretazione di una leggenda kosovara: Adamo ed Eva, cacciati dal Giardino dell’Eden, giungono a Syrigana per sposarsi), è basata su una partitura di Lugh O’Neill, con composizioni vocali di Nina Guo e coreografia di Robert Schulz, e il 29 giugno è stata rappresentata per la prima volta a Syrigana, un villaggio di 3mila anni vicino alla città natale di Halilaj, Runik, e dal 2016 protetto come sito archeologico. Oltre all’opera, la mostra presenta sculture, installazioni e video.

Halilaj, lei è nato in Kosovo nel 1986 ed è cresciuto durante la guerra. Come gestisce la tensione tra la sua memoria personale e la narrazione politica condivisa?
La guerra del 1999 è stata il culmine di un conflitto, ma anche una resistenza. Avevo 13 anni. Ricordo i tempi prima della guerra, le resistenze pacifiche, i passaggi tra due visioni opposte: la parte serba, con una visione diversa della storia, dei territori, e la mia comunità, dove ci sentivamo repressi. La nostra visione era un viaggio verso la libertà da un luogo di oscurità. Anche se il tempo passa, è affascinante rendersi conto di come falliamo nel riconoscere i bisogni dell’altro. Non ha senso che, se qualcuno vuole una vita migliore, l’altro lo veda come se gli stesse togliendo qualcosa. Le mie mostre nascono come risultato di ricerca e scambio con le persone su come orientarsi nelle difficoltà di capire quale sia la nostra posizione e opinione sul mondo, ma anche quale sia la nostra storia collettiva, non scritta. Gli spazi dell’arte sono spazi di libertà, dove lentamente si costruisce un nido, non attraverso soluzioni ma attraverso la messa in discussione.

Questa necessità di riscrivere le narrazioni emerge nella sua mostra del 2021 «Very volcanic over this green feather», in cui ha esposto 38 disegni d’infanzia realizzati in un campo profughi. Queste prime tracce visive come contribuiscono a reclamare quella storia?
Nei ricordi d’infanzia ci sono sia le limitazioni della nostra esperienza di vita a quell’età sia una sorta di apertura che crea impressioni frammentate ma nitidamente focalizzate. Quando li riguardiamo a distanza di tempo, quei ricordi possono apparire vividi, non perché fossero completi, ma perché erano concentrati in un modo particolare, anche se frammentato. Mi piace quell’intensità di sogno, di paura. Quando penso alla guerra, ricordo gli orrori, ma ho trascorso molto tempo anche a pensare alla natura, agli uccelli, a giocare. Sono fortunato a essere vivo e a continuare a condividere, sognare. Ma ciò che non è cambiato è la sensazione che mi manchi sempre una gran parte dei fatti necessari per capire davvero ciò che stiamo vivendo ora. Le domande che faccio non si riducono con l’età, non mi sono avvicinato alle risposte. Vivere la guerra non porta soluzioni.

Nel suo recente progetto con l’Istituto Giacometti, non è tornato solo ai suoi ricordi d’infanzia della guerra, ma anche ai ricordi di altre persone. Com’è nata questa collaborazione?
Dopo aver visitato l’istituto e gli archivi, sono rimasto molto affascinato quando ho scoperto i disegni realizzati con suo nipote Silvio Berthoud, copiando i disegni dei bambini che vedeva per terra. Ho avuto la sensazione di averlo incontrato. È stato interessante perché anche lui ha vissuto il periodo bellico e postbellico. L’esperienza della guerra ti fa rimettere in discussione la condizione umana. Ti spinge a chiederti se vuoi davvero essere un essere umano dopo aver visto quello che gli uomini possono fare.

Preferirebbe essere un uccello?
Sì. Quando vedo un uccello avverto se ha paura o se è felice. Mi fanno ridere se sono buffi, mi preoccupo quando stanno male. In realtà, mi trasmettono una sensazione di libertà perché mi allontanano dalle preoccupazioni umane, in cui tendiamo a porci sempre al centro di tutto. A volte mi sento liberato come essere umano grazie a loro. Per questo quando faccio una mostra, ovunque sia, essere un uccello è l’unico modo in cui riesco a sopportare i miei sentimenti.

Una volta ha detto: «Il mio lavoro è più coraggioso di me». La sua pratica l’ha mai trascinata verso qualcosa per cui non si sentiva preparato?
Sempre. Seguo la mia intuizione e faccio cose che non ho mai fatto. In questo modo metto me stesso in una situazione fragile in cui mi mancano gli strumenti e devo crearli da solo. Non avevo mai scritto un’opera lirica. E ricordo Sirygana come un luogo di musica. Dato che non c’è un teatro, l’abbiamo messa in scena all’aperto e abbiamo noleggiato due container per conservare gli oggetti di scena. Ma otto giorni prima dell’inaugurazione un container è stato bruciato e vandalizzato con la scritta «La Serbia ti ha ucciso». Sono state le ore più dure della mia vita professionale. Tutto ciò che avevamo preparato per l’opera era stato distrutto. Ho pianto molto. Mi ha ricordato quando, durante la guerra, venivano date alle fiamme le case. Dopo due ore, mi sono ripreso e mi sono detto che nessuno ci avrebbe fermato.

«Syrigana» sarà visibile all’Hamburger Bahnhof?
Lo spero. Presenterò anche «Shkrepëtima», un progetto che riporta alla storia della Casa della Cultura prima che fosse censurata. Penso che la cultura sia importantissima. La mostra di Berlino è finanziata dal Kosovo perché il museo non ha abbastanza budget. Non è incredibile? Penso che sia importante dirlo forte e chiaro: c’è un problema! Quindi non è perché tagliano i fondi che cancellerò la mia mostra.

Petrit Halilaj, «Shkrepëtima, House of Culture, Runik, 2018». Photo: Majlinda Hoxha

Chiara Caterina Ortelli, 05 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Petrit Halilaj: «Vivere la guerra non porta soluzioni» | Chiara Caterina Ortelli

Petrit Halilaj: «Vivere la guerra non porta soluzioni» | Chiara Caterina Ortelli