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Atelier Martial Raysse

© Jean Francois Jaussaud

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Atelier Martial Raysse

© Jean Francois Jaussaud

Martial Raysse, il ritorno alla pittura come atto morale

Alla Galerie Templon l’artista del Nouveau Réalisme ripercorre il proprio distacco dalla Pop Art e rivendica la pittura figurativa come spazio di intensità, storia e conoscenza

Michela d’Ecclesiis

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Alla Galerie Templon si apre un nuovo palcoscenico per le figure di Martial Raysse, classe 1936, figura chiave del movimento del Nouveau Réalisme e precursore della Pop Art europea, in particolare quelle che animano i suoi lavori recenti, in mostra dal 10 gennaio al 14 marzo. Un sodalizio che intreccia la poetica dell’artista e la visione della galleria. I nodi principali sono affrontati in questa intervista rilasciata a «Il Giornale dell’Arte» nel suo atelier a Bergerac, in Dordogna, un luogo ai margini della scena artistica da cui Raysse si è volontariamente ritirato fin dagli anni Settanta, per diventare pittore.

Ci sono voluti coraggio e grande umiltà nel prendere il pennello, quando aveva già raggiunto una celebrità così precoce.
Lo spirito torna allo spirito attraverso la pittura. Per percorrere questa strada mi sono imposto una sorta di stretta osservanza, metaforicamente. Ho scelto la pittura figurativa e narrativa in un momento critico, quando la si dava per morta, accettando tutte le conseguenze. Paradosso: Duchamp mi ha incoraggiato. Penso alle mie opere come a cugine del Rinascimento italiano e fiammingo, del Manierismo e del Classicismo francese. Penso al Crespi, Moroni, David. Per questo considero pertinente un approccio iconologico al mio lavoro, una curiosità affamata di sapere.

Lei ha segnato un netto confine tra i suoi lavori recenti e le opere precedenti della Pop Art e del Nouveau Réalisme, definendo questi movimenti troppo semplici. Durante le due grandi retrospettive, le ha guardate con simpatia?
Quando parlo di semplicità esprimo un giudizio morale. Si trattava di un fare artistico accondiscendente, accomodante. Chiunque avrebbe potuto farlo, non c’è una gerarchia verticale. Ho compreso che il modo di prendere il pennello e di intendere la realtà dei grandi maestri era infinitamente superiore. È per questo che mi sento legato al Genio italiano. Nelle retrospettive, mi è sembrato di vedere delle foto d’infanzia. Opere ben riuscite nel loro decorativismo che non mi bastava più.
 

 

 

Martial Raysse, «Copinons», 2018. Photo © Artist's studio

Letteratura e arti visive si contendono storicamente il primato del capitale simbolico. Nelle sue opere hanno trovato un compromesso?
Credo di sì. Le considero come la mia mano sinistra e la mia mano destra, non possono vivere l’una senza l’altra, pur fondandosi su medium differenti. Ho esordito con una vocazione poetica e per necessità espressive ho privilegiato l’immagine. È stato un libro però, Sur le théâtre de marionnettes di Kleist, a cambiarmi la vita. Mi ha mostrato il gioco tra grazia e gravità dei corpi, nella tragicommedia che è l’esistenza umana.

Il suo lavoro implica un labor limae che dura anni. Quando capisce che un’opera è matura?
La maggior parte delle scelte che compio, dal dettaglio al formato, è guidata dall’intensità. Mi interessa, ad esempio, la bocca, perché è come un fiore sul viso che si vorrebbe cogliere con un bacio. Le mie figure giganteggiano in una mise en scène: alcune si rendono inaccessibili allo sguardo, assorte in sé stesse, altre indirizzano esplicitamente l’attenzione verso chi guarda. Nella realizzazione finale de «La Paix» (2023) ho deciso che il bambino si muovesse verso la madre, fuori dalla composizione, mentre la donna hippie smette di distrarsi con le carte e si interessa a noi. Sono personaggi vivi e io esercito la libertà dell’artista: l’opera non è mai definitivamente conclusa e ne accolgo l’ambiguità.

Alcune teorie contemporanee riflettono sulla materialità e sulla sensorialità dell’arte. Quali sensi attiva principalmente la sua pittura?
La vista, anche perché i sapori, purtroppo, non possono servirsi dell’immagine in maniera convincente. Per me la finalità della materia è creare la luce. Allo stesso tempo, non credo nell’occhio allo stato selvaggio, è necessaria un’educazione culturale e formale. Quindi, si fa sguardo.

E l’approdo alla Galerie Templon?
La cosa più importante per me è che l’opera esista. E per esistere, deve essere guardata. La Galerie Templon mi ha invitato a esporre le mie opere recenti, in particolare i grandi dipinti di Storia, la vetta della gerarchia pittorica. Il loro imperativo categorico ha determinato l’interesse della galleria. Euforia, paura, desiderio, ironia, patetismo appartengono alla vita autentica. Le ho vissute, anche in esperienze estreme come l’irruzione della Gestapo in casa mia, e ho dato loro una forma visibile.

Martial Raysse, «La Peur», 2023. Photo © Artist's studio

Martial Raysse, «La Paix», 2023. Photo © Laurent Edeline

Michela d’Ecclesiis , 24 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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