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Mauro Zanchi
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L’importante progetto espositivo dedicato a Mario Giacomelli (1925-2000) in occasione del centenario della nascita prevede due mostre che si svolgono simultaneamente a Roma, presso Palazzo Esposizioni (chiusasi il 3 agosto), e a Milano, a Palazzo Reale (fino al 7 settembre). Già da qualche anno è iniziata una rivalutazione del grande maestro di Senigallia, ma queste due mostre costituiscono una vera possibilità per chi non conosce l’artista di scoprire e approfondire la sua poetica, dai suoi temi più noti alle tematiche che negli anni sono rimaste più sottotraccia, ma non per questo meno toccanti ed esemplificative del lavoro del fotografo.
Le numerose immagini del paesaggio marchigiano e delle «terre scritte» aprono la porta al mistero che si cela nella terra e raccontano il linguaggio fotografico dell’artista. Le fotografie-visioni pongono lo spettatore di fronte a un paesaggio interiore, da scoprire e in cui perdersi, come un medium che permette a ognuno di incontrare le proprie radici più originarie e profonde. Giacomelli lasciava intendere di aver ereditato dalla madre la percezione di chi è «nato con la camicia», ovvero chi, avvolto nel cencio amniotico alla nascita, possiede una propensione a sentire in modo più sottile, con la capacità di compiere viaggi inusuali nelle dimensioni degli spiriti, degli antenati o delle presenze invisibili. Da questa credenza, intrisa dei culti della Dea Madre e tramandata per via orale nel tempo, Giacomelli ha appreso un sapere antico.
Le diverse serie selezionate per le due mostre testimoniano che i percorsi nella dimensione oltre il reale non sono semplici escursioni fotografiche, ma veri e propri rituali, compiuti per assicurare l’abbondanza dei raccolti e per produrre immagini agenti ed efficaci, ristabilendo gli equilibri ancestrali tra le persone e la natura. Dagli anni Cinquanta in poi, l’artista ha rivolto la sua acuta visione e l’utilizzo della sua macchina fotografica contro chiunque intendesse cancellare la memoria e la sacralità della storia agreste e il portato animistico delle credenze popolari.
La sensibilità estetica di Giacomelli è profondamente intrisa della cultura contadina da cui proveniva. Questa tradizione, saldamente radicata nel ciclo della natura, nella relazione simbiotica con la terra e con il tempo, è intrinsecamente connessa a una visione del mondo che accetta il magico, il soprannaturale e il potere delle forze ctonie. Il realismo dell’artista marchigiano è al contempo una fedeltà al visibile e una profonda trasmutazione visionaria. Pur partendo dal dato concreto, egli lo trasfigura per svelarne il significato più profondo e nascosto. La sua arte, pertanto, non si limita a narrare eventi, evoca stati d’animo, suggerisce presenze, fa apparire l’invisibile.
Le serie «Astratte» (anni Novanta) e «Per poesie (ferri e lenzuola)» (anni Sessanta-Novanta) spingono ulteriormente la ricerca verso i confini dell’astrazione pura, mantenendo però un intrinseco riferimento alla materia e all’umano. Le forme si dissolvono in vortici di luce e ombra, diventando pura energia visiva. I paesaggi dell’anima vengono tradotti in immagini, visioni interiori che trovano una risonanza nel caos, ma anche nell’armonia del cosmo. In «Per poesie (ferri e lenzuola)», oggetti umili e comuni come fili spinati, ferri arrugginiti e lenzuola stese ad asciugare si trasformano in un alfabeto di segni enigmatici. Le lenzuola, cariche di simbolismo di intimità domestica e di transizione (nascita, morte, sonno), si ergono come fantasmi bianchi che fluttuano nel vento, mentre i ferri, con la loro durezza e le loro forme, evocano una realtà più aspra e incisiva. La loro disposizione nello spazio fotografico, spesso caratterizzata da una forte impronta grafica e drammatica, li eleva a entità simboliche, di riti sconosciuti, di presenze non facilmente percepibili che plasmano il destino.
Nelle serie degli ultimi anni, come «Questo ricordo lo vorrei raccontare» (2000) e «La domenica prima» (2000), Giacomelli si immerge con profonda sensibilità nella dimensione della memoria e del mistero, esplorando il labile confine tra la vita e la morte. Le figure umane, spesso anziani o anime solitarie, sembrano librarsi in uno spazio sospeso, quasi fuori dal tempo convenzionale. La luce, modulata tra delicatezza e asprezza, scolpisce i volti e i corpi, rendendoli quasi eterei. Non si tratta di una mera cronaca del quotidiano, ma piuttosto della messa in luce di flussi, di stati d’animo profondi, di reminiscenze vibranti, di anime che quasi trapassano la superficie stessa dell’immagine. Il magico si manifesta nella capacità di rendere visibile il fantasma del ricordo, l’eco di ciò che è stato o di ciò che è imminente, creando un’atmosfera di contemplazione e malinconia universale.
L’uso intransigente del bianco e nero, spesso coadiuvato da un forte contrasto, la predilezione per la grana grossa, i neri profondi e i bianchi abbaglianti, e la stessa manipolazione del negativo e della stampa, non erano soltanto scelte estetiche o tecniche; fungevano da mezzo per trasformare la materia visibile in segno, per spogliare il reale della sua superficie descrittiva e rivelarne l’essenza energetica e spirituale. Le imperfezioni tecniche diventano tracce di un’azione, di un intervento gestuale che incide l’immagine, rendendola un palinsesto di presenze e assenze, un dispositivo di «rivelazione». Attraverso le sue immagini, Giacomelli non solo ha documentato la condizione umana e i paesaggi della sua terra, ma ha cercato di rendere tangibile il respiro invisibile della realtà, le apparizioni silenziose, le presenze che abitano il transito liminale, in ogni declinazione, tra la vita e ciò che sta in un altrove che rimane pressoché ignoto.
«Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta», a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, Milano, Palazzo Reale, 22 maggio-7 settembre 2025
«Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista», a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 maggio-3 agosto 2025
Mauro Zanchi è critico d’arte, curatore e saggista