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Luca Bertolo
Leggi i suoi articoliChi l’ha detto che l’astrazione sia un ferro vecchio del modernismo, una stagione che nell’arco di un secolo ha dato tutti i frutti che poteva dare? Forse in questi termini non l’ha detto nessuno, ma certamente, con qualche distinguo, in molti la pensano così. In un momento come questo, di nuovo e un po’ scomposto interesse per la pittura, credo che abbia senso tornare su quei distinguo. Alcuni giorni fa sono andato con un’amica critica d’arte a visitare la mostra di Alessandro Sarra alla galleria romana z2o Project (sino al 14 maggio). Oltre a noi e alla gallerista c’erano solo l’artista (arrivato un un po’ dopo) e Michele Tocca, pittore anche lui, ma lì nel ruolo di curatore. La luce mattutina filtra diafana dalle tende bianche, rimbalzando per tutto il salone. Si percepisce un magico equilibrio nella mostra, installata con grazia e intelligenza, capace di far risuonare certe campiture monocromatiche con la scansione architettonica delle pareti. Ci aggiriamo in silenzio tra i dipinti, uno più bello dell’altro. Sono trent’anni che dipingo e ho ancora più ragioni di altri per ritenere morta e sepolta la vecchia diatriba tra pittura astratta e figurativa. Il fatto è che, ben prima di ogni artisticità, fin da quando siamo in culla impariamo a concettualizzare il mondo visibile; a raggruppare i segni, le macchie attorno a noi; a dare un nome alle cose. All’inizio stanno due tondi scuri su fondo chiaro, disposti simmetricamente, che si muovono all’unisono sopra una mezza luna rosa: è il volto della mamma che ci sorride. Per questo è che osservando delle immagini, per quanto ci venga detto che sono astratte (o non figurative) sorga impertinente la stessa domanda: cosa rappresentano? Davanti a uno dei quadri della mostra («s.t.», 2023, 60x50 cm) è impossibile non vedere la macchia nera centrale come una testa di profilo che si staglia su uno sfondo arancione. «Non ditelo ad Alessandro», ci sussurra Michele.

Alessandro Sarra, «Senza Titolo», 2023. Ph. Giorgio Benni Courtesy the Artist & z2o Sara Zanin
La breve bio riportata nel comunicato stampa comincia così: «Alessandro Sarra, nato a Roma nel 1966, è pittore astratto». La lapidaria affermazione, che suona prescrittiva non meno che descrittiva, mi strappa un sorriso; sorriso benevolo, anche perché Alessandro è un caro amico e scommetto che quando leggerà queste righe si farà una delle sue risate (benevole), magari ricordandomi, se è per questo, che si considera anche un vero comunista. Se fossi lì con lui, lascerei cadere la faccenda politica tornando al punto: dunque ancora oggi esiste qualcuno che si definisce «pittore astratto?» Eccerto, direbbe Alessandro, ed è una cosa meravigliosa! Come è noto, una parte significativa dell’astrazione novecentesca si è sviluppata parallelamente a manifesti e raffinate speculazioni intellettuali (a partire da Kandinsky, Malevič, van Doesburg, Carlo Belli etc.). In molti hanno avuto la tentazione del quadro definitivo, l’ultimo, il gesto finale quello dopo cui si sarebbe potuto chiudere baracca e burattini (Robert Ryman, Ad Reinhardt, Niele Toroni). Niente di tutto questo riguarda Sarra, il cui approccio gestuale e lirico si può piuttosto paragonare, se cerchiamo tra i padri nobili, a quello di Motherwell o Afro (o magari Corpora, artista fuori dai radar attuali, ma che in più di un'occasione gli ho sentito nominare con ammirazione). Sarra ha un rapporto diretto, naturale (se mi passate il termine), esistenziale con la pittura; dipinge come vive. Cosa se ne farebbe di un «ultimo quadro»? Qualcuno potrà pensare che Sarra sia un pittore un po’ attardato. Certamente, oltre a non citare Donna Haraway o Peter Sloterdijk mentre ti parla dei suoi fondi azzurri, ha qualche tratto démodé, come il sentirsi più vicino ai tempi in cui gli artisti discutevano a voce alta in trattoria invece che spicciare silenziosi cuoricini scrollando su Instagram in solitudine. «Attardato» però è un concetto in sé insufficiente, per non dire stupido, in sede di qualsivoglia storia dell’arte non grezzamente teleologica. Aggiungiamoci che in questi ultimi decenni stili o modi artistici sviluppatisi in altri contesti storico-culturali sono stati spesso rivisitati, più o meno disinvoltamente. La pittura astratta non fa eccezione. Tra l’altro, ottimi giovani pittori le hanno ridato linfa vitale. Chi si occupa seriamente di pittura lo sa e ne fa tesoro, anche se da qualche anno il proscenio è tutto occupato da pittori/illustratori. Mi pare sintomatica la recente pubblicazione di un libro intitolato L’astrazione come condizione storica, testo tutt’altro che attardato, in cui Alessandro Ferraro, giovane e brillante studioso, offre un variegato spettro di percorsi per saggiare quello che considera essere nientemeno che un «problema irrisolto della visualità contemporanea». Mentre guardavo «Senza titolo», del 2023 (30x40 cm), un piccolo capolavoro di semplicità, mi è venuto in mente Kimber Smith, il grande pittore americano morto negli anni ’80 del secolo scorso e citato in tempi più recenti da Raphael Rubinstein nei suoi testi dedicati alla condizione di instabilità della pittura contemporanea (Pittura Provvisoria. Una svolta nell’arte contemporanea, Johan&Levi, 2024). Non so dire se e quanto a Sarra importi di rientrare in questa categoria, ma so che per lui essere «pittore astratto» significa lavorare in uno spazio a parte, un luogo dove evitare legami diretti con le cose del mondo. E a giudicare da questi ultimi dipinti, tutti senza titolo, sembrerebbe più deciso che mai a proseguire su questa via «spirituale». Neppure la mostra ha un vero titolo: basta Alessandro Sarra - nomen omen - il resto fatelo voi. Un’isola silenziosa, ho pensato quella mattina, dove riprendere fiato dal frastuono visivo e intellettuale che attraversiamo quotidianamente. Alessandro si avvicina ai sessanta e ha dietro di sé una notevole esperienza, sia in fatto d’arte che di vita. Ma questi suoi ultimi dipinti, svestiti di ogni presunzione, sembrano fischiettare i loro motivi con la spensieratezza di un ragazzino. «Sono opere più sensibili, esitanti» scrive nel suo bel testo Michele Tocca, «sono prove di riinizio, tentativi di gioventù».