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Gabriel Silva Barros

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Gabriel Silva Barros

Lisboa Fashion Week, un equilibrio delicato tra indipendenza e sostenibilità

La 65ma edizione dell’evento portoghese, emblema delle fashion week «ai margini», conferma che se vogliamo esplorare davvero la moda, occorre tenere d’occhio anche ciò che accade ai confini dell’impero

Jacopo Bedussi

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In un panorama in cui le settimane della moda delle capitali più consolidate (New York, Londra, Milano, Parigi) monopolizzano copertine, investimenti e riflettori, le cosiddette fashion week «laterali» guadagnano per contro un’importanza silenziosa ma cruciale, se si ha intenzione di comprendere che cos’è il sistema moda nel suo insieme. Tanto nelle sue influenze quanto nel suo essere un iceberg, un sistema molto più ampio e complesso di quanto non appaia in superficie.

Un ottimo esempio per esplorare questi territori è la Lisboa Fashion Week, organizzata da Associação ModaLisboa in collaborazione con il Municipio di Lisbona. Questa manifestazione, attiva dal 1991, è giunta alla sua 65ma edizione, svoltasi a inizio ottobre in vari luoghi della capitale portoghese.

Ora: perché è così importante porre attenzione a queste manifestazioni «laterali» (un termine in sé spiacevole eppure utile, perché aiuta a posizionare ciò di cui parliamo nel percepito comune)? Innanzitutto, perché offrono dati e scenari che sfuggono ai radar mainstream.

Nella sua ultima edizione, la Lisboa Fashion Week ha visto la partecipazione di 23 presentazioni e 53 designer nazionali e internazionali. Come racconta Joana Jorge, project manager di ModaLisboa dal 2015, l’obiettivo è chiaro: «Come comunità, come ecosistema, siamo molto indirizzati verso la creatività e verso la sperimentazione, questo è il nostro focus. Ci sentiamo una piattaforma che promuove talenti che hanno la capacità di crescere e di diventare rilevanti, a prescindere da quale sia lo stile delle cose che propongono. Essendo la più importante piattaforma in Portogallo crediamo sia la cosa giusta da fare».

Queste fashion week «ai margini», da Lisbona a Baku, da Tbilisi a Copenhagen, operano spesso fuori dai circuiti principali, eppure costituiscono una rete essenziale per comprendere la moda come disciplina piuttosto che come business o momento mediatico. E per chi studia la moda o vuole coglierne le dinamiche nella forma più piana e concreta, sono uno strumento importante.

Anche dal punto di vista economico, la piattaforma lisboeta ha prodotto risultati tangibili. «Nel corso degli anni, prosegue Jorge, ci sono stati tanti designer che hanno trovato la loro strada, sia essa trovare una distribuzione o mantenere una dimensione più piccola con un circolo ristretto di clienti diretti». Un equilibrio delicato tra indipendenza e sostenibilità, che riflette bene la scala e la mentalità del contesto portoghese.

«Non abbiamo un ecosistema di grandi brand in Portogallo, spiega, siamo piuttosto storicamente un punto di incontro tra business, retail e designer. Quindi le strutture che escono da qui sono generalmente indipendenti e relativamente piccole, e orientate al b2c («business to consumer», ovvero dal business al consumatore, Ndr), con una piccola cerchia di clienti affezionati». Questa caratteristica, lungi dall’essere un limite, può trasformarsi in una risorsa. «Anche per ragioni di sostenibilità credo che questa possa diventare una forza. Il vecchio sistema del b2b («business to business», Ndr) e del retail sta già cambiando, perché sempre più ci rendiamo conto che non abbiamo bisogno di così tanti capi. E credo che qui altre strade si stiano percorrendo, e per noi funzionano: trovare un modo per diventare economicamente sostenibili senza passare per il circuito degli showroom e delle fiere».

Servono anche, queste fashion week, se così si può dire, come cartina tornasole, per capire quali sono i codici e i linguaggi che dal centro si diffondono verso i limiti del sistema. Quali pose, atteggiamenti, valori, tic, estetiche si propagano e riverberano nel mondo della moda, in quali direzioni e con quali intensità. E questo non riguarda solo le collezioni proposte ma tutta la struttura, dagli sponsor agli invitati.

«Ci sono buyer che vengono direttamente, non ancora quanti ne vorremmo, spiega Jorge, ma è una cosa su cui stiamo lavorando. Il motivo per cui sfiliamo in un certo periodo dell’anno, cioè fuori dalle classiche campagne vendite, è anche perché sia possibile per chi è interessato alla ricerca venire qui e vedere con calma quello che proponiamo. La dimensione ce lo permette».

Gli altri «giocatori» nel nostro stesso campo, aggiunge, sono «Copenhagen, Berlino, Madrid. Anche se hanno mercati più grossi, c’è qualcosa che portiamo avanti da tanto tempo e che produce molto rispetto negli altri player. Sappiamo di non avere un mercato grande, ma proprio per questo abbiamo deciso di non competere commercialmente ma di proporre qualcosa che sia nostro, sincero, autentico».

Guardare solo le passerelle dei grandi marchi significa perdere buona parte del racconto: se la moda è visione, espressione, linguaggio e trasformazione, allora vanno considerati anche quegli spazi che rimangono, per ragioni di scala o di pigrizia di chi li racconta, sottotraccia. È lì, forse soprattutto lì, che emergono indicazioni utili per descrivere non tanto che cosa sarà la moda, ma dove e come la moda sta agendo su chi si interessa di moda, e soprattutto sugli studenti delle accademie.

Jorge insiste anche sulla necessità di un approccio più mirato: «Vorrei fare insieme cose ancora più di nicchia e comunque commercialmente rilevanti. Dobbiamo fare cose piccole ma rilevanti per nicchie specifiche, più creative e sostenibili».

E quindi, in uno spazio per le sfilate a tutti gli effetti polifunzionale, ci si ritrova come agli albori di quelle che erano le settimane della moda per come le intendiamo oggi. Con un calendario in cui ogni 90 minuti, nello stesso spazio neutro, si avvicenda una collezione dopo l’altra. Nelle attese si chiacchiera con gli altri giornalisti, con gli studenti che fanno il tifo per questo o per quel designer e anche con i designer stessi, in una mini comunità completamente orizzontale che rende la convivenza delle varie parti del sistema facile, quasi rilassante.

Allo stesso tempo, è interessante notare come nel pubblico, enormemente più giovane di quello che si trova alle sfilate di Parigi o di Milano, si individuino tracce di una specie di stravaganza modaiola quasi antica. Outfit eccentrici, certo, e completamente inadeguati al clima per sottrazione o per eccesso, ma anche piccoli dettagli ormai dimenticati e quasi commoventi o divertenti: gli occhiali da sole al buio, i ventagli ostentati, le fughe di corsa a fine show per andare non si sa bene poi dove.

E proprio questo pubblico, secondo Jorge, rappresenta il vero motore del cambiamento. «La nuova generazione è molto progressista, dice, perché un mercato piccolo purtroppo tende anche a essere piuttosto conservatore, ma sento che le cose stanno cambiando. In questo la moda può davvero diventare un linguaggio culturale per tradurre questa trasformazione».

Tante le proposte interessanti viste in passerella. Si fanno notare tra i giovani alcune proposte retrò-future con influenze di sperimentazioni giapponesi spudoratamente anni Ottanta, come nei look di Gabriel Silva Barros. Elio invece, parte della selezione di emergenti «Sangue Novo», riflette sulla mascolinità con ironico entusiasmo, tra workwear e classici stilemi molto gay di pelle e machismo stemperato in giocattolo.

Elio

C’è poi chi invece si concentra sulla struttura, sulla costruzione e sull’intarsio. Gli abiti di Ana Margarida Feijao sono di un dark puro e micidiale, e anche molto sexy. In un’espressione però quasi classica e fiamminga. Con un lavoro sui materiali che evolve nello stesso look dall’organico all’artificiale tra frange e latex. Eva Do Cruzeiro Seixas fa un’esplorazione invece quasi architettonica, con una collezione che si interroga sull’idea di casa. I suoi sono look che tengono insieme capacità modellistica e un grande senso del decoro inteso anche come accumulazione armonica, che rimanda a grandi maestri come Romeo Gigli.

Ana Margarita Feijao

Eva Do Cruzeiro Seixas

Mestre Studio, marchio fondato nel 2023 da Diogo Mestre, è una di quelle realtà che, sbocciate nel contesto di «Sangue Novo», si è già fatta strada e ne farà certamente ancora. È innegabile il senso della contemporaneità nei volumi e nell’interpretazione della mascolinità. Il tutto con un piede sempre in una personale idea di portoghesità, se così si può dire, ma senza cedere alla nostalgia o al sentimentalismo o, peggio ancora, alla tradizione.

Mestre Studio

Mestre Studio

Çal Pfungst è un genietto in the making, con un gran senso delle proporzioni e del portamento nascosto sotto a una pregevole stravaganza. Esplorazioni in territori magici, volumi che abbracciano, che diventano manifestazioni di pensieri o sogni senza perdere la propria identità di vestiti. È uno che ti porta con sé senza forzature, con un fascino da pifferaio magico. Dà l’idea di divertirsi molto e viene voglia di scoprire quale sarà la prossima mossa.

Çal Pfungst

Çal Pfungst

Tra i marchi con più esperienza spiccano Kolovrat e Nuno Baltazar. Il primo è un marchio fondato da Lidija Kolovrat, bosniaca di origine, nel 1990. Ma nonostante i 35 anni di storia non c’è nelle collezioni alcuna auto-indulgenza. Anzi sembra esserci come motore una molto consapevole capacità di riflettere, come uno specchio, attraverso l’esperienza, le tensioni e gli interessi che si avvicendano nel contemporaneo. Baltazar invece dimostra una fascinazione molto ben maneggiata per eleganze d’altri tempi, uomini e donne che sognano gli anni ’20 del secolo scorso ma senza per questo prendersi troppo sul serio o farne il cosplay.

Kolovrat

Nuno Baltazar

In conclusione: se vogliamo esplorare davvero la moda, occorre tenere d’occhio anche ciò che accade ai confini dell’impero. Perché è proprio con i confini che si confronta sempre la metamorfosi prima di diventare mainstream. In spazi più audaci, meno normati, e dunque più fertili.

Jacopo Bedussi, 10 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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