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Monica Trigona
Leggi i suoi articoliGerhard Richter si potrebbe definire l’«alchimista» moderno della pittura, capace di trasformare ogni tela in un campo di battaglia, tra l’illusione e la verità. Nato in Germania, nell’ex DDR, nel 1932, ha attraversato il Novecento come un camaleonte instancabile, rifiutando di farsi ingabbiare in qualsiasi tendenza o corrente. Astratto o figurativo? Fotografico o gestuale? In fondo, però, perché dover scegliere?
Le sue opere sembrano a volte fotografie sfocate, altre volte esplosioni di colore senza controllo, eppure ogni gesto è calcolato, ogni sfumatura è un interrogativo sulla realtà che rimane in bilico tra freddezza tecnica e vertigine emotiva.
Dal 17 ottobre al 2 marzo 2026, la Fondation Louis Vuitton apre le sue porte a una delle retrospettive più attese nel panorama artistico internazionale. Il titolo, lapidario ed essenziale, «Gerhard Richter», preannuncia semplicemente un’immersione totale nell’universo visivo e concettuale di uno degli artisti più influenti del nostro tempo.Ma diamo qualche numero: 270 opere in mostra e più di sessant’anni di ricerca per un lungo, complesso corpo a corpo con l’immagine, la pittura e la memoria, condotto con una coerenza formale sorprendentemente instabile, tra figurazione e astrazione, passato e presente. Richter si è formato nella Germania comunista e fuggito nella Germania occidentale alla vigilia della costruzione del Muro. È un artista per cui l’identità, personale, politica, artistica, è sempre qualcosa da mettere in discussione. La sua pittura, infatti, non si lascia mai ridurre a un solo stile o a una sola ideologia. Attraverso il filtro delle fotografie, dei media, della storia dell’arte e della memoria privata, ha così costruito un lessico visivo in continua trasformazione. La mostra alla Fondazione Louis Vuitton, curata da Dieter Schwarz e Nicholas Serota, è la prima a offrire una panoramica così estesa e stratificata dell’opera di Richter, dai primi lavori del 1962 fino alle ultime creazioni del 2024. Ogni galleria rappresenta una tappa fondamentale di questo percorso che si articola così:

Gerhard Richter, «Onkel Rudi [Uncle Rudi]», 1965. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

Gerhard Richter, «Seestuck (leicht bewolkt) [Marine (slightly cloudy)]», 1969. Courtesy of Fondation Louis Vuitton
Galleria 1 (1962–1970): Pittura da fotografie
Richter parte da immagini fotografiche, sia familiari (es. «Onkel Rudi», «Tante Marianne»), sia tratte da giornali, per affrontare temi personali e storici (come in «Bombers»). Inizia presto a mettere in discussione la pittura tradizionale con opere come «Quattro pannelli di vetro» e i primi «Campioni di colore». Con paesaggi e marine rielabora generi classici in chiave sperimentale.
Galleria 2 (1971–1975): Interrogarsi sulla rappresentazione
Inizia un’indagine sul senso della pittura: dai «48 ritratti» della Biennale del ’72, al processo di dissoluzione dell’immagine (come nell’«Annunciazione» da Tiziano). Sperimenta con le Vermalungen (colature), i «Nuanciers de Couleurs» e i «Peintures Grises», negando rappresentazione ed espressività.
Galleria 4 (1976–1986): Esplorare l’astrazione
Richter sviluppa un linguaggio astratto personale: ingrandisce schizzi ad acquerello, esplora la superficie pittorica e trasforma la pennellata in soggetto («Strich»). Accanto a ciò, continua a dipingere ritratti (come della figlia Betty) e nature morte.
Galleria 5 (1987–1995): Il decennio oscuro
La serie «18 ottobre 1977», prestata dal MoMA, affronta esplicitamente la storia tedesca. In questo periodo realizza alcune tra le sue astrazioni più cupe e riprende i temi familiari con opere come «Sabine mit Kind».
Gallerie 7 e 9 (1996–2009): Nuove prospettive: il caso
Richter sperimenta con il caso e con nuove modalità formali: dai piccoli dipinti a opere più sistematiche come «Silikat», «4900 Colors» e «Cage», omaggio al compositore John Cage.
Gallerie 9 e 10 (2009–2023): Ultimi dipinti
Dopo una pausa dalla pittura, esplora opere digitali («Strip») e su vetro. Torna a dipingere con «Birkenau», opera ispirata a fotografie dei campi di sterminio nazisti. Chiude con gli ultimi dipinti astratti.
Inoltre, sculture, acquerelli, disegni e fotografie dipinte punteggiano il percorso, offrendo pause riflessive e approfondimenti sugli interessi dell’artista, in particolare negli anni ’70, ’90 e dopo il 2017, anno in cui smette temporaneamente di dipingere. L’allestimento, che occupa l’intera fondazione con una grande varietà di media, olio su tela, vetro, acciaio, disegno, fotografia, riflette la complessità di un artista che ha fatto della pittura un terreno di resistenza e di dubbio, un linguaggio critico e poetico al tempo stesso. Richter usa gli strumenti dati dalla pittura con grande maestria: in alcune sue opere, la scompone nei suoi elementi più semplici, come le singole pennellate, in altre, «si diverte» a mettere in discussione le regole che fanno sembrare reali le immagini, in altre ancora, esplora il colore in tutte le sue sfumature.

Gerhard Richter, «Apfelbaume [Appletree]», 1987. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

Gerhard Richter, «Wald [Forest]», 1990. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

Gerhard Richter, «4900 Farben [4900 colors]», 2007. Courtesy of Fondation Louis Vuitton