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Germano D’Acquisto
Leggi i suoi articoliC’è un momento, un fotogramma, in cui l’America implode ed esplode allo stesso tempo. È l’11 settembre 2001, e nella fotografia di Thomas Hoepker cinque ragazzi sprofondati nella loro pausa pranzo osservano, o forse ignorano, una colonna di fumo che riscrive la storia in tempo reale. Un’immagine che oggi sembra un meme apocalittico ante litteram, un ritratto involontario dell’indifferenza strutturale che attraversa l’America del nuovo millennio. Ed è proprio da qui che «Magnum America», al Forte di Bard fino all’8 marzo 2026, mette il dito nella piaga: che cosa resta di un Paese che ha raccontato sé stesso meglio di chiunque altro e che, allo stesso tempo, non ha mai smesso di mentirsi? La mostra, costruita in capitoli decennali dagli anni Quaranta ad oggi, è un viaggio in quell’ossessione tutta yankee di voler essere al centro del mondo anche quando il mondo crolla attorno. Una sorta di enorme psicanalisi visuale condotta dai fotografi di Magnum Photos, che dal 1947 si aggirano per gli Stati Uniti come antropologi con la Leica, registrando contraddizioni, sogni, rughe, posture e disastri. Il risultato non è un ritratto: è un referto medico.
Perché l’America che emerge è sempre splendida e sempre spaventata, magniloquente e vulnerabile, arrogante e insicura. Un Paese che sfila come se tutto fosse un’elezione presidenziale in loop infinito. Si comincia con Robert Capa, che vede Hollywood con l’innocenza di un europeo appena sbarcato in un nuovo Eden mediatico. Poi arriva Henri Cartier-Bresson, che fiuta i rituali americani come fossero un’antologia del comportamento umano in salsa wasp: la messa evangelica, il picnic del weekend, il sorriso obbligatorio. Quando a subentrare sono gli americani stessi dell’agenzia, Eve Arnold, Elliott Erwitt e Bruce Davidson, l’immagine si fa più interna, più morbida e più spietata allo stesso tempo: proteste, diritti civili, Vietnam, shopping compulsivo e l’eterno balletto della middle class tra aspirazione e frustrazione. Ma è nella lunga linea temporale della mostra che la vera identità americana emerge: non un Paese, ma una sequenza di shock emotivi. Il V-Day, la Marcia su Washington, Woodstock, l’11 settembre, l’uragano Katrina, Obama, Trump, i blackout energetici, i blackout mentali. Un sistema nervoso nazionale che Magnum registra come un elettrocardiogramma irregolare, oscillante tra esaltazione e catastrofe. In un quadro simile lo scatto di Hoepker diventa più che una scelta curatoriale: è la chiave che sblocca tutto. Quei cinque ragazzi appoggiati all’East River, mentre Manhattan brucia svela un Paese che osserva il proprio trauma come un film e che non ha ancora capito se reagire, piangere o scattare fotografie. È il simbolo perfetto dell’America ipermoderna, anestetizzata e iperconnessa, capace di trasformare qualunque tragedia in intrattenimento, qualunque intrattenimento in identità.
La mostra, basata sul volume Magnum America (Thames & Hudson, 2024), interpreta, sospetta, insinua. Ci dice che l’America non è una nazione, è una domanda. Anzi: è un dubbio costante. Ed è forse per questo che i fotografi di Magnum, nel tempo, hanno avuto un ruolo quasi terapeutico: osservatori non richiesti che hanno rivelato ciò che l’America preferiva tenere fuori campo. La povertà nei sobborghi, le cicatrici razziali, le contraddizioni eterne tra libertà e controllo, il capitalismo come religione nazionale, il sorriso come obbligo morale. Ciò che emerge è un mosaico in cui splendore e miseria convivono come coinquilini obbligati. È il racconto di un Paese che non smette mai di reinventarsi, anche quando sarebbe meglio fermarsi un attimo a respirare. E forse è proprio questo il fascino persistente dell’America: la sua capacità di essere ogni volta all’altezza del proprio mito e ogni volta drammaticamente al di sotto. Se «Magnum America» fosse un film, sarebbe una commedia tragica diretta da un regista europeo che non ha ancora deciso se ama o detesta gli Stati Uniti. Se fosse un romanzo, sarebbe scritto da uno Steinbeck con l’account TikTok. Ma è una mostra fotografica, e quindi, per fortuna, non concede scorciatoie narrative. Mostra, non spiega. Allude, non giustifica. E ci ricorda che l’America è un Paese sempre sull’orlo di qualcosa: della gloria, del collasso, della riforma, del replay.
Alla fine, uscendo dalle sale, la domanda resta sospesa: che cosa sono gli Stati Uniti? E la risposta, inevitabile, è sempre la stessa: tutto. E il contrario di tutto. Proprio come nella foto di Hoepker: tragedia e pausa pranzo, fumo e leggerezza, storia e noncuranza. Un compendio dell’umanità, con l’audio al massimo e il futuro in buffering.
Bruce Gilden, «Nathen, un ragazzo di fattoria, Iowa, Usa, 2017». © Bruce Gilden/Magnum Photos
Inge Morath, «Un lama a Times Square, New York City, Usa, 1957». © Inge Morath/Magnum Photos