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Jeff Wall, «Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986)», 1992

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Jeff Wall, «Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986)», 1992

Jeff Wall, il tempo lungo dell’immagine

In arrivo a ottobre, alle Gallerie d’Italia di Torino, una grande mostra del fotografo canadese curata da David Campany che ne ripercorre la ricerca dagli anni ’70 a oggi

La ricerca di Jeff Wall (Vancouver, 1946) ci costringe ad abbandonare la poetica bressoniana del momento decisivo e affacciarci a un tempo lungo, quasi meditativo, e alla costruzione di un immaginario plausibile, seppur fittizio. D’altronde, la fotografia è sempre una restituzione ideologica del mondo, anche quando avanza la presunzione d’oggettività, l’aderenza al soggetto o all’episodio ritratto. Ma nella pratica di Jeff Wall l’ambigua fedeltà del mezzo non è contemplata, perché le fotografie proposte sono l’attento condensato di una ricostruzione cinematografica, come fossero frame decisivi, l’apice o la somma di istanti utili per distillare l’immagine, una sola apparizione. 

Questo processo, che lo vede utilizzare fotografie di grande formato montate su lightbox, prende forma da una cultura calata nell’arte contemporanea; negli anni Sessanta studia Storia dell’arte all’Università della British Columbia laureandosi con una tesi sul Dadaismo e si avvicina all’Arte concettuale, in modo particolare a personalità come Robert Smithson, Dan Graham, Joseph Kosuth, per poi conseguire, nella prima metà degli anni Settanta, un dottorato a Londra sempre in Storia dell’arte. Adotta la fotografia come linguaggio preferenziale solo nel 1977 dopo uno studio vorace, durato anni, grazie al quale anche il cinema assunse un ruolo primario nella restituzione o ricostruzione del visibile. Di quegli anni (1978) è l’opera «The Destroyed Room», una stanza completamente a soqquadro: un materasso squarciato occupa la parte centrale dell’immagine e tutt’intorno un caos di oggetti, mobili e indumenti descrivono una violenza tangibile appena trascorsa. 

L’allusione diretta all’opera di Eugène Delacroix, «La Mort de Sardanapale» (1827), rivela un modus operandi che spesso contraddistingue l’artista della cosiddetta «scuola di Vancouver»: Wall infatti ripropone momenti della pittura, della cultura letteraria o cinematografica, evitando però citazioni dirette o semplicemente illustrative. La tela di Delacroix abbandona il suo intento narrativo, la presenza umana si dissolve per conservare solo quel sentimento perturbante la cui parete di fondo sembra fare da sipario. E anche quando si avvicina all’opera letteraria L’uomo invisibile (1952) di Ralph Ellison, evita un’intenzionalità didascalica e meramente illustrativa, distillando una solitudine illuminata da 1.369 luci, un disordine armonico, quasi equilibrato dove un uomo, colto di spalle, si fa carico della complessità allestitiva dello spazio. 

Intorno al 2000 Wall abbandona la dimensione del lightbox a favore di grandi stampe digitali, ma la temperatura del lavoro rimane immutata. Quello che può apparire anomalo è il numero limitato di opere prodotte dagli anni Settanta a oggi, soprattutto considerando, spesso erroneamente, la fotografia come linguaggio bulimico e debordante. Nella ricerca di Jeff Wall il tempo della costruzione, anzi della ricostruzione, è necessariamente dilatato. Quella che potremmo definire una messa in scena, o comunque una teatralizzazione del ricordo, comporta una complessità operativa stratificata e una gestazione temporale importante. Questo processo contraddice un approccio fotografico sequenziale, in cui la narrazione si sviluppa scatto dopo scatto, in cui l’unità del racconto è una somma di momenti. Il lavoro di Wall, al contrario, è condensazione emotiva, le immagini proposte sono autoconclusive, non è contemplato un prima o un dopo, ma tutto succede all’interno del rettangolo fotografico. In questo modo la produzione dell’artista si limita a un numero di fotografie circoscritto assecondando un’ecologia dell’immagine che, soprattutto oggi, appare come manifesto programmatico. 

Ed è questa estrema puntualità a determinare l’efficacia del discorso, non succede nulla (o forse tutto) al di fuori dello spazio prestabilito; anche quando esplora in maniera più diretta tematiche sociali e politiche, come nel caso dell’opera del 1992 «Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patro, near Moqor, Afganistan, wintwr 1986)», l’immagine è sufficiente a sé stessa, evitando così appendici ulteriori. L’opera descrive le conseguenze di un ipotetico attacco da parte di un gruppo di mujaheddin all’esercito sovietico in Afghanistan. Nel 1992 era da poco conclusa la guerra sovietico-afghana, ma l’opera sembra trascendere le conseguenze politiche dello specifico conflitto, per accogliere l’orrore della guerra nella sua inafferrabile ineluttabilità. Anche in questo caso gli echi pittorici del passato riemergono prepotenti, come il ciclo di incisioni «Los desastres de la guerra» (1818-20) di Francisco Goya, ma l’allusione, ancora una volta, non si esaurisce in un semplice citazionismo, ma innesca una narrazione più ampia. Come se l’assurdo e grottesco dialogo tra i morti e i vivi che la fotografia di Wall sembra suggerire, avesse un’origine antica e l’immagine contenesse tutta la Storia dell’arte, tutti i possibili conflitti, un’eredità pesantissima depositata su quei tredici corpi riversi sulle rocce afgane. 

E ancora una volta Jeff Wall dimostra come il tempo sia coautore di un processo generativo che vede la storia dell’immagine riemergere e attualizzare la sua presenza, indicando un’inevitabile continuità, un’incessante dialettica tra cronaca e storia. 

Al lavoro di Wall verrà dedicata un’importante mostra alle Gallerie d’Italia di Torino (dal 9 ottobre al primo febbraio 2026), a cura di David Campany, critico e direttore creativo dell’International Center of Photography di New York: un’occasione per conoscere o approfondire la ricerca di un visionario della fotografia, dalla fine degli anni ’70 alle produzioni più recenti, attraverso 27 lavori di grande formato.

Jeff Wall, «After Invisible Man by Ralph Ellison the Prologue», 1999-2001

Andrea Tinterri, 16 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Jeff Wall, il tempo lungo dell’immagine | Andrea Tinterri

Jeff Wall, il tempo lungo dell’immagine | Andrea Tinterri