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A 25 anni dall’esordio, Arthemisia, la società di produzione, organizzazione e realizzazione di mostre oggi fortissima in Italia e all’estero, può fregiarsi di numeri decisamente importanti: 1.400 mostre, quasi 100mila opere esposte e ben 80 milioni di visitatori. Numeri raggiunti con un’attenzione nei confronti del pubblico grazie alla quale il mondo dell’arte visiva si è aperto anche a chi, per una sorta di timore reverenziale, non osava avvicinarcisi. Molti gli strumenti messi in campo per ottenere questi numeri che, va detto, hanno fatto inizialmente storcere il naso ad alcuni, a causa del linguaggio considerato troppo pop e della «facilità» di alcuni degli artisti (Tamara de Lempicka è arrivata in forze in Italia con Arthemisia, così come Frida Kahlo e Maurits Cornelis Escher, o Leandro Erlich, lui mai esposto prima in Europa, che presto avrà una grande personale a Parigi), oppure di una fama ormai fin troppo consolidata (Monet e gli impressionisti, Van Gogh). Certo in queste scelte risiedono alcune delle ragioni del successo ma non tutte. Ne parliamo con Iole Siena, archeologa di formazione, presidente e amministratore delegato di Arthemisia dal 2010.
Dottoressa Siena, qual è la filosofia che vi ha consentito di conseguire questi risultati?
Il mio obiettivo (quasi una fissazione, direi) è da sempre quello di rendere l’arte «popolare», nel senso più alto del termine ovviamente, perché la intendo come uno dei principali strumenti di evoluzione sociale. Per metterla alla portata di tutti occorreva però condurla fuori dalla nicchia in cui era confinata dalla cripticità del linguaggio e dalle scarse informazioni che venivano date. Abbiamo perciò studiato nuovi modi di comunicare i contenuti delle mostre: siamo stati i primi, per esempio, a mettere a disposizione gratuitamente le audioguide, a introdurre le mostre con docuvideo didattici, a raccontare non solo le singole opere, ma anche il loro contesto storico, i significati, le vite degli artisti, le tecniche. Quando lavoro alla costruzione di una mostra, penso soprattutto a chi non sa nulla di quello che sta vedendo, e cerco di dargli tutti gli strumenti perché possa capire e apprezzare. Visito spesso, in incognito, le nostre mostre, per capire che cosa la gente guarda e a che cosa si interessa. E se vedo che tirano dritto davanti alle opere, mi chiedo dove noi abbiamo sbagliato. Sento un forte senso di responsabilità nei confronti dei milioni di persone che richiamiamo e vorrei che uscissero arricchiti e con il desiderio di vedere altro. Penso infatti che la nostra sia una funzione pubblica e sociale. È vero: le nostre mostre fanno numeri importanti ma la mia vera soddisfazione, forse più di quella imprenditoriale, è di aver saputo coinvolgere un pubblico vasto, prestando sempre attenzione all’accessibilità, all’apprendimento e all’emozione delle persone.
Quando e come ha pensato che fosse arrivato il momento di «democratizzare» l’arte?
Da sempre, sin dai miei lontani inizi in questo settore, nel 1998, ma dirimente è stato il Covid: lì, con le mostre e i musei chiusi, i cinema e i teatri sigillati, ho sentito fortemente quanto fosse importante per tanti di noi poter fruire dell’arte. È stato allora per esempio che ci siamo inventati, le visite guidate in diretta alle mostre su Zoom: la gente comprava un biglietto a 5 euro, si iscriveva e, in diretta dalla mostra, una guida faceva il giro con loro. E tutti potevano intervenire come se fossero stati lì. È stata la prima volta al mondo, tecnicamente complicata, ma abbiamo avuto un seguito incredibile. Cerchiamo sempre di dare qualcosa in più e, proprio in virtù di questo, il lavoro del «fare mostre» per noi è molto cambiato: se fino a qualche anno fa la gran parte dell’impegno consisteva nel trovare le opere e scegliere un bravo curatore, per garantire la qualità del progetto, oggi questa parte rappresenta il 30% del lavoro, cui si aggiunge un enorme impegno nella ricerca sui contenuti, nella modalità allestitiva, nella comunicazione, nella formazione del personale che lavora nelle mostre, tutto perché l’esperienza del visitatore sia la migliore possibile. Senza mai trascurare la serietà scientifica: la mostra di Van Gogh a Roma, in Palazzo Bonaparte, del 2022-23, ha avuto quasi 60omila visitatori: molti studiosi ci hanno scritto per dirci che avevano scoperto cose dell’artista o delle opere che ignoravano.
Palazzo Bonaparte è una delle sedi che gestite in modo autonomo, come pure Palazzo Albergati a Bologna: una novità nel mondo delle mostre.
Le sedi che gestiamo in maniera autonoma (una vera novità, in effetti) sono palazzi storici, un tempo abitazioni nobili. Con accordi di lunghissima durata e con investimenti importanti, noi le dotiamo di tutte le caratteristiche necessarie per diventare sedi espositive. Lo abbiamo fatto con Palazzo Bonaparte a Roma (la residenza in piazza Venezia di Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone, Ndr), di proprietà di Generali, nostro grande partner con cui condividiamo un importante progetto chiamato «Valore Cultura», che era da tempo inutilizzato. Quanto a Bologna, la rinascita di Palazzo Albergati, in via Saragozza, ha fatto rifiorire una zona prima un po’ dimenticata: intorno sono nati bar, alberghi e altre realtà. Perché il beneficio dei nostri investimenti sul territorio è ben più importante di quanto s’immagini. Per questo siamo corteggiati da un’infinità di città e di enti privati e pubblici.
Di recente avete anche inaugurato un circuito espositivo in luoghi più decentrati, come Asti, Ragusa, Conversano, Biella, Ulassai. Queste sedi sono in grado di generare un ritorno economico?
Anche questo progetto, che chiamiamo «L’Arte per Tutti», è iniziato dopo il Covid e la risposta è stata ottima: in Palazzo Mazzetti ad Asti, per esempio, con Monet e gli impressionisti abbiamo raggiunto i 60mila visitatori; a Ragusa, con gli Egizi, i visitatori arrivano da tutt’Italia, e Conversano è ormai al primo posto in Puglia per le mostre d’arte. Ma la vera ragione di questa scelta è di natura sociale ed etica. Ci siamo domandati: perché mai i centri più piccoli non possono avere mostre rigorose e importanti come le grandi capitali culturali? Certo, deve esserci reattività da parte delle amministrazioni locali, la capacità di coinvolgere il territorio e un lavoro di promozione turistica, che ci siamo inventati. È la partecipazione della collettività che mi restituisce il senso di ciò che facciamo. Inoltre diamo lavoro a tanti ragazzi e a persone del luogo, e alcuni di loro li abbiamo portati con noi ovunque: una soddisfazione umana grandissima. Senza contare che, secondo i dati Istat, ogni visitatore di una mostra genera 60 euro di ricaduta sul territorio, un indotto significativo. Quanto al ritorno economico, le mostre di successo come quelle di Van Gogh, Monet, Escher ci consentono di sostenere anche queste attività. È un progetto che mi sta molto a cuore e che sostengo con grande convinzione.
In questi anni i successi sono stati molti, ma Arthemisia ha attraversato anche momenti difficili: in passato sono uscite sui giornali notizie relative a traversie giudiziarie. Che cosa ci dice in merito?
Grazie per avermelo chiesto, apprezzo la domanda. Premesso che fare impresa con l’arte e la cultura è tutt’altro che facile perché il nostro mestiere è più prossimo al mecenatismo che al business, la nostra storia è questa: Arthemisia è costituita da molte aziende, una delle quali nel 2018, nonostante gli enormi sforzi per proteggerla, ha subito un fallimento, conseguenza del fallimento di altre aziende con cui lavorava, fatto provato da due importanti cause già vinte. Essendo io all’epoca l’amministratore anche di quella azienda, è partita, come è giusto che sia, una procedura penale per accertare le responsabilità. Il procedimento seguirà il suo corso, ma in ogni caso non c’è alcun nesso, né ce ne sarà, con quello che fa oggi Arthemisia. Gli articoli polemici a cui si riferisce, quattro o cinque credo, sono dettati da alcuni competitor che digeriscono male il successo di Arthemisia. Sono attacchi abbastanza vigliacchi, destinati agli enti con cui lavoriamo. Non raggiungono il risultato sperato, anzi, ma di certo mi amareggiano. Arthemisia è in ottima salute e in costante crescita, e considerando che non ha alle spalle né grandi gruppi industriali-editoriali né la politica (siamo fermamente e da sempre apolitici), sono doppiamente orgogliosa dei risultati conseguiti, basati tutti solo sulle nostre forze, sulla capacità, la qualità del lavoro e la serietà. Punto. Le ultime stime fatte su Arthemisia dicono che il nostro lavoro tiene in piedi, solo in Italia, tremila posti di lavoro nella filiera dell’arte. Posso dirmi soddisfatta.

Iole Siena fotografata in una sala della mostra «Mario Testino. A Beautiful World», allestita in Palazzo Bonaparte a Roma dal 25 maggio al 25 agosto 2024