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Delle Vele di Scampia, originariamente suddivise in sette blocchi abitativi, oggi ne resta in piedi solo una. Tra le polveri di un’utopia modernista e il degrado sociale, il complesso si consegna alla memoria nel momento in cui, a poco a poco, scompare.
Nel 2024, a ridosso delle ultime demolizioni, l’artista Nicola Di Giorgio (Palermo, 1994) documenta uno di questi edifici per il progetto «Calcestruzzo». L’immagine costringe lo sguardo sul tetto di una vela che dialoga con un’altra, un tempo adibito a punto di vedetta: qui stazionavano le sentinelle, figure incaricate di vigilare sui movimenti all’interno del complesso. In primo piano, le sedie abbandonate segnano il passaggio di queste presenze, disposte in direzioni diverse per coprire ogni angolo visivo, a testimonianza della sorveglianza di ciò che appare come memoria spettrale di un cimitero collettivo: le finestre smurate, ridotte a vuoti neri, assumono le sembianze di tombe scoperchiate, già abbandonate dai corpi e, agli occhi di Di Giorgio, riecheggiano le sepolture dipinte da Beato Angelico nel suo «Giudizio Universale» (1425-28).
Questa immagine e la complessa costruzione concettuale che la sostiene confluiscono in «La deposizione del vuoto», titolo della IX edizione del Premio Graziadei per la Fotografia, sostenuta dal MaXXI di Roma e curata da Simona Antonacci. Aperta al pubblico dal 19 settembre al 2 novembre, la mostra raccoglie l’avanzamento di «Calcestruzzo», progetto avviato dall’artista nel 2020 per interrogare il paesaggio italiano attraverso la sua storia cementizia. Vincitore dell’ottava edizione del Premio Graziadei nel 2022, Di Giorgio prosegue qui il percorso avviato, costruendo un archivio personale di immagini, materiali e documenti che dialogano tra loro, restituendo una visione stratificata del paesaggio, della memoria collettiva e delle fragilità del presente.
Il titolo scelto non è un gesto puramente nominale: nella sua sintassi, le parole agiscono come un atto, evocando al tempo stesso sottrazione e offerta. Parlare di deposizione del vuoto significa dare forma a ciò che non ha consistenza, deporre in un luogo un’assenza che diventa materia. In questa dinamica si riconosce un rituale: il museo si trasforma in un altare, uno spazio in cui il vuoto non è mancanza, ma principio generativo, capace di restituire spessore al presente e di custodire, come reliquia, le fragilità e le inquietudini che ci attraversano.
In dialogo con l’architettura del Centro Archivi del MaXXI, l’allestimento non propone un discorso lineare o logico, ma guida lo sguardo lungo un percorso che si snoda tra tre elementi scultorei principali e una serie di fotografie collocate a diverse altezze: «Calcestruzzo» costituisce il nucleo originario. Tra le opere, il «Modulatore del pieno e del vuoto I» si configura come dispositivo scultoreo e archivistico: una struttura modulare di scatole sovrapposte che custodiscono progetti e multipli di stampe dell’artista. Come «torre della conoscenza», concentra e ordina l’archivio personale, funzionando anche come oggetto instabile e immersivo, riflettendo la precarietà dell’abitare e la necessità di uno spazio mentale per depositare pensieri. Gli «assemblage» sono dispositivi di stratificazione concettuale: fotografie, cartoline, ritagli di giornale e reperti eterogenei vengono riorganizzati in composizioni tridimensionali, dove l’accumulazione ricorda quella del collezionista. I materiali provengono da mercati fisici e da eBay, usato come portale digitale per selezionare documenti e immagini con la parola «calcestruzzo», generando connessioni inattese. Infine, «Ci interrompiamo in qualunque momento» è dedicato all’incidente del 2002 al grattacielo Pirelli: l’artista raccoglie materiali audiovisivi d’archivio, ricostruendo la vicenda secondo una sequenza a-narrativa. Il vuoto e la fragilità del cemento si riflettono nella qualità bassa delle immagini, restituendo precarietà del paesaggio costruito e della memoria collettiva.