Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Manuela De Leonardis
Leggi i suoi articoliL’elefante non è solo un grande mammifero, ma, soprattutto in India, simboleggia fertilità, forza, regalità, specie se associato alla divinità di Ganesh e di Gaja Lakshmi. Ancora oggi in tutto il subcontinente se ne vedono bardati di tutto punto, dal Forte di Amber al festival indù Pooram di Thrissur o magari sui dipinti alle pareti dell’Amba Vilas Palace, residenza dei maragià di Mysore. Dal reale all’immaginifico il passo è breve: una migrazione nella cultura popolare enfatizzata sì dalla valenza simbolica di questo bellissimo pachiderma, ma anche da certe caratteristiche che lo rendono «simpatico» (orecchie grandi, proboscide, pelle rugosa), amatissimo soggetto di illustrazioni per grandi e piccini. Un elefante che danza circondato da musicisti con turbante e baffi all’insù è proprio l’immagine di un’etichetta della Wilson, Latham & Co. di Manchester, realizzata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ’900, esposta nella mostra «Ticket Tika Chaap: Ticket Tika Chaap: l’arte del marchio nel commercio tessile indo-britannico», curata da Nathaniel Gaskell e Shrey Maurya al Map-Museum of Art and Photography di Bangalore (fino al 15 febbraio), e dedicata alle etichette stampate con marchi commerciali che in epoca coloniale venivano utilizzate dai produttori tessili indo-britannici. Dalla collezione di oltre 7mila pezzi del Map, ne sono state selezionate oltre 300 tra le più rappresentative che arrivano fino agli anni Quaranta. L’iconografia di queste coloratissime «tika» o «chaap» (parola hindustani che significa sigillo, timbro, marchio), stampate su carta lucida nel Regno Unito e spedite in India dove venivano incollate sui tessuti di cotone per poi proseguire il loro viaggio nei mercati asiatici, africani e sudamericani, è varia e testimonia le influenze e ibridazioni degli stili artistici, come pure i cambiamenti culturali e sociopolitici dell’epoca.
«Erano molte cose allo stesso tempo: marchi registrati legalmente, pubblicità e forse le prime forme di branding in India», affermano i curatori. Inquadrate all’interno di uno spazio perlopiù rettangolare, che sui bordi riporta i nomi delle aziende (tra queste Graham di Manchester, Wolker e Goward & Co. di Calcutta) si trovano raffigurazioni di sapore esotico, divinità dell’Olimpo induista, effigi di maragià e paesaggi derivati dalle immagini fotografiche. In mostra è esposto anche un ritratto di Ram Singh II di Bourne & Shepherd, uno dei primi studi fotografici in India fondato nel 1863 (lo stesso maragià era un appassionato fotografo che aveva il proprio studio di posa in un’ala del suo palazzo a Jaipur), mentre di Samuel Bourne è l’albumina del 1866 con i templi sul Gange a Benares. Anche la raffigurazione di due donne danzanti attribuita a Edward Taurines è un’albumina; invece, il ritratto della Maharani Kusum Kunwarba, firmato da Wilson Studios di Bombay, è una stampa alla gelatina ai sali d’argento degli anni Trenta. Tra le appropriazioni è interessante come l’etichetta di Shaw Wallace & Co. mostri una replica del dipinto «The Lantern Bearers» (1908) dell’americano Maxfield Parrish (pubblicato nella copertina della rivista «Collier’s» nel 1910) in cui, però, le donne indossano sari al posto del costume da Pierrot. Quanto ai simboli che riflettono l’idea di progresso, tra radiatori di ghisa e ventilatori, non mancano rappresentazioni dell’ideale di donna moderna con il taglio di capelli a la garçonne, il costume da bagno di jersey, il completo per il tennis. Figure glamour che viaggiavano anche sulle cartoline postali portando con sé un desiderio radicale di emancipazione che andava oltre i confini geografici.
Una veduta della mostra «Ticket Tika Chaap» al Map, Bengaluru. Photo: Manuela De Leonardis