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Luca Fiore
Leggi i suoi articoliJacopo Benassi ha preso il volo. Dalle luride cantine di La Spezia della scena punk è arrivato agli aristocratici spazi di Palazzo Ducale di Genova. Passando dai white cube delle gallerie che contano. Eppure lui è rimasto lo stesso ragazzaccio di una volta, irriverente come la sua arte. «Libero!», come il titolo di questa che è annunciata come la mostra più ampia mai realizzata in carriera. Fotografo, musicista, performer che più passa il tempo più assomiglia a uno scultore. Benassi ha infatti iniziato a concepire le proprie mostre in termini di installazione: prendere le sue fotografie (bianco e nero violento, i cui soggetti sono abbagliati da un flash diretto) e legarle, sovrapporle, appenderle nel vuoto, nasconderle alla vista dello spettatore. E alle esposizioni l’artista accosta performance/concerti in cui espone il suo corpo, lo usa come strumento musicale, affida la macchina fotografica agli spettatori e lascia che siano loro a realizzare le immagini. Esperienze ad alta intensità.
«Paradossalmente, il lavoro di Benassi è contemporaneamente caotico, nel senso di ricco di riferimenti che poi si ramificano in ogni direzione, ma anche molto sintetico, spiega Francesco Zanot, curatore della mostra. Le sue fotografie sono molto scarne, brutali e secche. Scarne, nel senso di “scarnificate” proprio. Ma oggi nel suo lavoro c’è una doppia tensione. Da una parte l’allargamento dei suoi soggetti soliti, che sono sempre stati realizzati in interno, mentre ora Jacopo cerca di uscire all’esterno per trovarli. E, dall’altra, c’è uno scendere verso la sostanza più profonda delle cose». Ed è proprio a Zanot che abbiamo chiesto qualche anticipazione della mostra che andrà in scena a Genova dal 12 luglio al 14 settembre.
In questi giorni Benassi è impegnato in una residenza a Palazzo Ducale. Di che cosa si tratta?
È una residenza di un mese, organizzata da Blu-Breeding and Learning Unit e curata da Laura Lecce, realizzata con fondi di Strategia Fotografia. L’opera creata in questi giorni confluirà nella mostra e sarà poi donata al Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce. Sono previsti incontri, workshop, prove aperte e performance settimanali.
La mostra è concepita come una retrospettiva?
Non proprio. Si concentra sulla produzione di Benassi dal 2018 ad oggi, il periodo in cui ha esplorato la fotografia in modo più sperimentale e ha iniziato a superare la logica della singola immagine, accoppiando le fotografie in dittici e trittici. Ha poi cominciato a intervenire direttamente sulla cornice, costruendola con le proprie mani fino ad intervenire sui vetri, attribuendo un valore scultoreo all’oggetto finale. In questi anni, poi, ha introdotto stratificazioni tra foto e dipinti, creando collage tridimensionali o sculture fotografiche. L’attenzione è stata sulla materialità e sul corpo dell’immagine, trasformando la fotografia in oggetto fisico. A tutto questo si aggiunge la dimensione della performance, legata al mondo della musica e della controcultura in cui Jacopo si è formato.
Questo approccio suggerisce, in fondo, un «rifiuto» del mezzo fotografico?
Niente affatto. Benassi ha un profondo interesse per la fotografia. La sua ricerca esplora e supera i limiti del medium. È una riflessione sul rapporto tra pubblico e immagini, che vuole mettere in discussione. Copre parti delle foto o le espone al contrario per stimolare la ricerca del non visibile, inducendo una reazione attiva, non mera contemplazione.
Ci sono linee tematiche o soggetti ricorrenti in questi otto anni?
Sì, la sua vita stessa. Le opere sono una vasta autobiografia frammentata sul quotidiano: oggetti personali, persone. Più di recente, molta natura, legata al suo vivere tra La Spezia e la Borgogna. Si è spostato dagli spazi interni dei club all’esterno. Il filo conduttore è la prossimità al soggetto, ciò che è «a portata di flash». Il flash, infatti, con l’uso del bianco e nero, è la costante stilistica della sua pratica.
Come si collegano l’aspetto scultoreo e quello performativo?
Sono due dinamiche interconnesse. Le performance sono spesso indipendenti dal lavoro fotografico, ma entrambe sono legate alla necessità di utilizzare il proprio corpo e di «fare tutto da sé». C’è un’enfasi sugli aspetti materici e fisici. Egli interviene su ogni componente, dalle cornici ai vetri, per lasciare un segno tangibile del suo passaggio.
Benassi è un fotografo che ha deciso di contaminare il linguaggio. È una scelta opposta a chi insiste nel conservare la purezza della fotografia. Due approcci che sembrano inconciliabili.
Personalmente sono molto interessato alla contaminazione e all’impurità della fotografia, che riflette la sua pervasività nel nostro mondo. Trovo che l’arte contemporanea debba agire, debba riverberare, debba risuonare rispetto a ciò che accade nel contesto in cui siamo immersi. E tutto ciò che ci circonda cattura o riproduce immagini. Eppure sono attratto, più in generale, dalla radicalità del fare artistico. Caratteristica che vedo anche in alcuni autori che si dedicano in tutto e per tutto al linguaggio fotografico tradizionale. E collaboro anche con loro. Ma il punto, per me, è prendere posizione. La radicalità può assumere molte forme, anche opposte.
L’impressione è che oggi i «contaminatori» ricevano più attenzione dei «puristi».
Diffido di un atteggiamento puramente avverso alla fotografia. Lo trovo sterile. È spesso opportunista, proprio perché consapevole del fatto che il mercato e le istituzioni di arte contemporanea sono meno interessati alla fotografia «pura». Il presupposto è che la fotografia in quanto tale sia un po’ meno arte. È un discorso che arriva da lontano e a me non interessa. L’approccio di artisti come Benassi è diverso, perché volto a esplorare i limiti e arricchire il dibattito. Per me è molto più potente e fruttuoso. Poi è la qualità dell’opera a restare determinante, non il mezzo.
Che tipo di allestimento avete pensato?
Sarà come arrivare il giorno prima dell’inaugurazione della mostra. Le oltre cento opere saranno appoggiate a terra, come si fa prima di appenderle. L’intenzione è creare un rapporto diretto, intimo e carnale col visitatore, superando la tradizionale contemplazione. Appendere le opere creerebbe distanza. Lasciarle a terra avvicina i visitatori. Il lavoro di Benassi va percepito con il corpo, non solo osservato. È un invito a una fruizione immersiva.
Può darci un’anticipazione sul catalogo? Come si fa a mettere in pagina il mondo di Benassi?
Sarà un libro d’artista, non un semplice catalogo. Conterrà fotografie di spine di piante, accostate a fotografie che Benassi ha fatto di quadri di piante (senza fiori/foglie) o incendi realizzati da lui stesso. È uno degli aspetti dell’evoluzione del suo lavoro. Non potendo raggiungere con il flash la distanza del paesaggio, Jacopo lo dipinge per poi fotografarlo con la sua luce caratteristica. Sarà un libro che punta sull’essenziale, che scava in profondità e rifiuta l’ornamento. Il libro rifletterà la natura del suo lavoro in mostra.

© Jacopo Benassi