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Victoria Stapley Brown, Pac Pobric
Leggi i suoi articoliSi apre dal 17 marzo all’11 giugno la 78ma edizione della Biennale d’arte contemporanea del Whitney Museum. La biennale, inaugurata nel 1932 come rassegna annuale di arte americana dal fondatore del museo Gertrude Vanderbilt Whitney, «cerca di proporre un’istantanea del movimento», spiega Mia Locks, curatrice indipendente che ha lavorato per questa edizione con Christopher Lew, curatore associato al Museo. Entrambi hanno viaggiato attraverso gli Stati Uniti e Portorico per selezionare i 63 artisti (nessuna megastar) in mostra, nati tra gli anni Venti e gli anni Novanta e rappresentativi di diversi ambiti, tra cui pittura, fotografia, video, scultura e cinema. I curatori puntano a una definizione piuttosto ampia di arte «americana»: la mostra comprende artisti di diverse nazionalità che vivono negli Stati Uniti e artisti americani che vivono all’estero, come Jo Baer (protagonista di una personale al Whitney nel 1975). Presenti anche collettivi come Gcc, fondato a Dubai ma con membri anche negli Stati Uniti. Alcuni dei temi della biennale, come la violenza, le diseguaglianze e l’approccio degli artisti al loro lavoro in un’epoca di incertezze, sono emersi proprio durante le visite agli studi. Come spesso accade alla Biennale del Whitney, la riflessione verte anche sull’identità americana o di un’arte americana.
Secondo Lyle Ashton Harris, uno degli artisti partecipanti, «il concetto di America è molto attuale ed è opportuno e importante ampliarne la definizione. Il concetto di identità è caratterizzato da una grande fluidità. L’ho vissuto in prima persona l’anno scorso quando “Once, Once” (un’opera del 2016 legata all’installazione di Harris alla biennale, Ndr) è stata esposta alla Biennale di San Paolo; mi sono chiesto come avrebbe potuto adattarsi a quel contesto. E lo ha fatto piuttosto bene. Si tratta di un’opera della metà degli anni Ottanta ed è ancora attuale. La specificità culturale è locale, ma ha anche un obiettivo da raggiungere. Il riconoscimento oltre i confini: è questo per me che decreta il successo di qualcosa».
Per John Divola, altro artista invitato, «non esiste nulla di oggettivo, è tutta questione di opinioni e prospettive. Il concetto di “essere americano” è in perenne mutazione, soprattutto in questi ultimi tempi. C’è stato chiaramente un forte cambiamento anche con Obama. Non sono incoraggiato dai recenti avvenimenti, ma è normale che un Paese abbia i suoi alti e bassi. Come fotografo, la mia opera è sempre legata a una situazione specifica (tempo, luogo e circostanza) ma non può fare altro che essere influenzata dal flusso istantaneo internazionale di immagini e informazioni». Si tratta della più grande Biennale del Whitney di tutti i tempi in termini di dimensioni; occupa infatti circa i due terzi dello spazio espositivo del museo. Sarà così possibile dare «un più ampio respiro alle opere», afferma la Locks, tra cui non mancano installazioni site specific, come quella di Rafa Esparza, che vive a Los Angeles, realizzata con decine di migliaia di mattoni in terra cruda essiccati al sole.
«Lo scorso maggio, spiega invece An-My Lê, cinquantasettenne artista di origine vietnamita, mi è stato chiesto di fare fotografie nel sud degli Stati Uniti, in un momento in cui i monumenti confederati erano contestati e la gente voleva abbatterli. Penso ci sia un forte rapporto tra il set di un film, “Free State of Jones” di Gary Ross, su un disertore dell’esercito confederato ai tempi della Guerra di Secessione, e questi monumenti, questa idea di storia. Anche se fa parte del passato, è un argomento ancora molto attuale, con ripercussioni sulla vita di tutti i giorni. Riciclare e riaprire queste vecchie ferite mi interessa molto».