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Mickalene Thomas nel suo studio di Brooklyn. Foto Dana Scruggs

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Mickalene Thomas nel suo studio di Brooklyn. Foto Dana Scruggs

Donne pericolose all’Hamburger Kunsthalle

Dai Preraffaelliti al femminismo, dai Simbolisti a #MeToo, l’evoluzione dell’iconografia della femme fatale: mitologica e letteraria se la dipingono gli uomini, attivista e attuale se la interpretano le artiste

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Franco Fanelli

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«Non sono cattiva, è che mi disegnano così», si giustifica Jessica Rabbit, la moglie del celebre coniglio nel film di Robert Zemeckis. Certo è che ha un passato non del tutto limpido, visto che la sua vita letteraria, nei romanzi di Gary K. Wolf, è costellata di tradimenti ai danni del marito (uno dei quali con Clark Gable) che peraltro non ama. Quel conturbante mix di Rita Hayworth, Lauren Bacall e Veronica Lake, cantante nel club di Los Angeles «Inchiostro e tempera», è la perfetta femme fatale, ambigua il giusto (anche quando dice di amare Roger perché la fa ridere), torbida, sensuale, irresistibile. È il tipo di donna che può portare un uomo alla rovina, di quelle che costellano la storia della letteratura, dell’arte e della musica operistica.

Un versante, quest’ultimo, particolarmente frequentato da anticipatrici di Jessica Rabbit, messe in fila in un libro di Vittoria Crespi Morbio edito nel 2009 da Umberto Allemandi. Sono «incantatrici in musica, che non finiscono di effondere fascino e veleno, bellezza e perdizione, sopra tutti coloro che sono destinate ad amarle», Alcina e Armida, Carmen, Salomè, Lulu; la Manon Lescaut di Puccini; Dalila di Saint-Saëns. «A me mi hanno rovinato la guerra e le donne», ribadisce del resto persino un sedicente sciupafemmine come il Gastone di Petrolini; «mi sono innamorato di una stronza», constata invece, più prosaicamente, Daniele Silvestri nella canzone «La paranza».

Nelle arti visive l’iconografia della dark lady, della vamp, della donna che con le sue grazie e le sue micidiali virtù prende il sopravvento sull’uomo troppo sensibile a siffatti argomenti, conosce un suo periodo d’oro durante il Simbolismo, quando pittori e scultori aprono il vaso di Pandora in cui si erano assopite gorgoni, sirene, maghe e altre creature tanto ammalianti quanto perniciose. Sono loro ad aprire le danze (con Salomè ovviamente in prima fila) della mostra «Femme fatale. Sguardo, Potere, Genere», aperta dal 9 dicembre al 20 aprile alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo.

E con Ferdinand Khnopff, Gustave Moreau e Franz von Stuck, che richiamano in azione la prima peccatrice, Eva, e poi Medusa e Circe, si dedicano al tema i Preraffaelliti, nelle cui opere si affacciano donne spettrali, Ofelie tutt’altro che neutralizzate dal suicidio, una vittoriana Elena di Troia (di Dante Gabriel Rossetti), fanciulle dalle gote il cui mortale pallore è esaltato dall’innaturale rosso carminio di labbra che paiono intinte nel sangue.

È del resto il periodo in cui Gogol raccomanda di non fidarsi troppo, la sera, di certi incontri muliebri sulla Prospettiva Nevskij, «quando il demonio stesso accende le lampade solo per mostrare ogni cosa sotto un aspetto non vero». I pompier e i pittori di storia e di genere mettono intanto in scena una specie di colossal prehollywoodiano, o se si vuole un feuilleton con pretese storiche, che avrà come protagoniste crudeli imperatrici, ambigue monache non necessariamente monzesi e un’immancabile Lucrezia Borgia (Hermann Kaulbach). Munch, poco più tardi, indugerà a lungo sulla donna vampiro e/o arpia.

Una delle sezioni più interessanti della mostra riporta l’attenzione sull’ambigua femminilità delle donne ritratte nelle metropoli europee tra le due guerre: Dodo (Dörte Clara Wolff), Gerda Wegener e Jeanne Mammen. Sono finalmente le donne che restituiscono al loro genere il potere troppo a lungo sottratto dal maschio: dapprima nel ruolo classico di femme fatale, e poi su toni via via più aggressivi, come nella performance in cui Valie Export, nel 1968, si aggira in un cinema porno con genitali in vista e mitra fra le braccia.

Ma a questo punto la partita si svolge sul tema dell’identità sessuale e su rivendicazioni di «gender» e «transgender». Un panorama mutato e in trasformazione in cui trovano posto artiste come Ketty La Rocca, Nan Goldin e, per l’ormai imprescindibile sipario sulla Black art, Mickalene Thomas e Zandile Tshabalala. Si tratta soltanto, per il visitatore maschio, di scegliere (o di evitare) la sua carnefice.

Senza dimenticare che sono in agguato, in mostra, gli affilati artigli surrealisti di Birgit Jürgenssen, che con la sua immedesimazione donna-animale riporta alla mente lo sguardo, le movenze e il ruggito di Simone Simon nel ruolo di Irena Dubrovna Reed, l’ipnotica «cat woman» nel film del 1942 di Jacques Tourneur «Il bacio della pantera».

Mickalene Thomas nel suo studio di Brooklyn. Foto Dana Scruggs

Franco Fanelli, 07 dicembre 2022 | © Riproduzione riservata

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