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Il quartier generale di «Panorama» nell’Auditorium di Renzo Piano, L’Aquila

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Il quartier generale di «Panorama» nell’Auditorium di Renzo Piano, L’Aquila

Diario da Panorama | Italics

Reportage in aggiornamento da L’Aquila: 62 artisti di 56 gallerie in 20 luoghi pubblici e privati per la grande mostra diffusa e itinerante che piace anche all’Unesco

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Jenny Dogliani

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Giorno 4

Domenica 10 settembre, si conclude la terza edizione di «Panorama», ma la bandiera di Gianni Caravaggio (cfr. giorno 2) continuerà a sventolare al Munda, cui è stata donata come lascito permanente. È il simbolo della capacità di Italics di raccontare i tanti territori italiani attraverso l’arte e di creare un’identità comune che li trascenda tutti. Non è un’operazione facile, neanche sulla carta. Eppure, i rappresentanti di Procida e di Monopoli, sedi delle due precedenti edizioni, erano qui. Per Lorenzo Fiaschi (presidente di Italics), la loro presenza a L’Aquila è stata una prova grandissima di partecipazione e di affetto, il segno tangibile di una community che cresce.
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«Abbiamo raccontato L’Aquila in modo diverso, tantissimi non ci erano mai stati. L’entusiasmo è stato unanime, sia per la gente del posto, sia per chi è venuto da fuori», spiega la vicepresidente Pepi Marchetti Franchi. «Chi non era mai venuto credeva fosse ancora un cantiere, chi era già venuto, invece, non si aspettava una città così vivibile, luminosa e rinata, e chi l’ha vissuta ancora di più, l’ha ritrovata più bella di prima. È diventata una città molto metafisica, alla de Chirico, una sorpresa anche per gli artisti», aggiunge Fiaschi

«Gli artisti sono tutti molto contenti, entusiasti del dialogo che si è creato con l’architettura, la città e gli artisti di diverse epoche. Il sole ci ha aiutato, questo cielo è meraviglioso, come le prospettive di questa città importante, con edifici ritornati nel loro splendore, questi scorci sulle montagne: ha colpito tutti. Abbiamo fatto riscoprire un luogo straordinario e unico che è stato molto importante in tempi antichi ed è un po’ scomparso nella contemporaneità, speriamo di aver dato il nostro piccolo contributo», prosegue Pepi Marchetti Franchi.
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Un cambio di passo, dunque, per una città resiliente e ricettiva che non ha avuto paura di reinventarsi, di riscoprirsi, di esplorare. Sono stati aperti luoghi privati, come Palazzo Nardis e Rivera, che gli aquilani non avevano mai visto. «Molti privati si sono messi a disposizione e hanno aperto i loro spazi per ospitare questa iniziativa senza conoscerla più di tanto. Ed è stato uno degli ingredienti del successo di un progetto culturale, che è più culturale di quello che si pensava noi», concludono.

È stata un’operazione collettiva e non calata dall’alto, caratterizzata da un’atmosfera volutamente informale, perché l’arte e la cultura vincono se non sono elitarie. «L’Aquila è una città con radici culturali talmente profonde e ramificate che arrivare con la pretesa di portare qui l’arte contemporanea sarebbe stato ridicolo. Tutti hanno risposto alle mie sollecitazioni, anche i galleristi dell’antico, che nello scegliere le opere da proporre hanno operato un’attentissima selezione, non solo per la qualità delle opere, ma anche per il modo in cui potevano parlare in questo territorio. La rete oggi è una maniera superiore di affrontare le cose, l’intelligenza collettiva si genera quando esistono scambi», spiega la curatrice Cristiana Perrella. «Abbiamo smosso la città, è stato un terremoto culturale», aggiunge l’artista abruzzese Alberto Di Fabio, autore del mosaico «Enigma della materia», 2023 (Umberto Di Marino), seconda opera che resterà in città, in Largo Tunisia.
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In molti oggi stiamo lasciando L’Aquila. Attraversando distese di boschi, massicci montuosi e colline che si rincorrono per un centinaio di chilometri. Vengono in mente le atmosfere rarefatte del dipinto «Senza titolo 2022» dalla serie «Les dessouvenus» di Tatiana Trouvé (Gagosian), realizzato su una tela verde sottraendo il colore con la candeggina. E viene in mente «Omelia funebre della civiltà contadina» di JR (Galleria Continua), proiettato nella rassegna cinematografica che Italics ha proposto per la prima volta e con film di grande impatto, come quello su Anselm Kiefer di Wim Wenders.

«Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando non ci saranno più le lucciole, le api, le farfalle, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita. La nostra storia è finita», recita una voce nel film di JR durante le esequie alla civiltà contadina. «Ci hanno seppellito, replica il contadino, ma non lo sanno che siamo semi». Anche l’arte è un seme e Italics l’ha seminato, ora si spengono le luci, ma qualcosa crescerà.
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Giorno 3

Venti secondi nel cuore di una notte buia. Venti lunghissimi, interminabili secondi, 309 morti, 1.600 feriti, 80mila sfollati. Insieme ai palazzi sono crollati tanti piccoli mondi. Oggi l’intonaco fresco e le reti di sicurezza hanno preso il posto della polvere e delle macerie. Ma nei pochi vicoli dove i lavori sono ancora un po’ più indietro e le voragini lasciate dal terremoto restano evidenti, si scorge qualche ferita non rimarginata. Lo scheletro di un palazzo con le mattonelle di un bagno rimaste al loro posto, una spina inserita in una presa, un pensile aperto di un mobiletto ancora attaccato alla parete, una scatola di tè caduta su un divano, logoro e danneggiato. Sono oggetti che raccontano storie, tante diverse storie bruscamente interrotte e coraggiosamente riprese dei cittadini aquilani, come quella della nobile famiglia Nardis, tra le più influenti della città sin dal XV secolo. 
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Il Palazzo Nardis, insieme al Palazzo Rivera, entrambi quasi completamente restaurati, è una delle due sedi principali della mostra. Qui c’è un’opera di Joan Crous, «M.XV (anno 23) 2023 (Maurizio Nobile), in dialogo con una piccola e rara «Natura morta» disegnata da Giorgio Morandi nel 1948 (Maurizio Nobile). L’idea dell’oggetto, e della sua persistenza nello nostra quotidianità, è ciò che lega l’opera di Morandi a quella di Crous e al palazzo. «L’uomo è ciò che resta di sé stesso attraverso gli oggetti che lascia, spiega l’artista. Ciò che ci incuriosisce di più, più ancora dell’arte, sono gli oggetti che abbiamo usato nel nostro quotidiano, tutto ciò che ci circonda e che ha accompagnato la storia dell’uomo. Cambiano i materiali, oggi ce ne sono che in passato non esistevano, cambiano le forme, cambia il design, ma la funzione dell’oggetto permane, è sempre la stessa, raccogliere, avvolgere, infilzare». La scultura in vetro di Crous, una natura morta tridimensionale raffigurante poetici frammenti di un servizio da tavola, è disposta su un tavolo in legno insieme a ciò che resta del numerosissimo servizio in cristallo che custodiva la storia della famiglia Nardis, ma che è andato in parte in brandelli con il terremoto.
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Storie che si tramandano di generazione in generazione, come quella dei Fratelli Nurzia, che nel 1835 hanno preparato per la prima volta una delle più prelibate specialità aquilane, il torrone dei Fratelli Nurzia. Come la famiglia Nardis non ha mai pensato di lasciare il suo palazzo, i discendenti Nurzia sono tornati nella storica pasticceria di famiglia in piazza del Duomo, prima ancora che fosse possibile dopo il terremoto. Qui, nell’elegante vetrina in stile ottocentesco, trova la sua collocazione ideale il lavoro di Alek O, «Senza titolo (il giorno della fine non ti servirà l’inglese)» (2023) (Martina Simeti). «Sono sculture realizzate con il minimo indispensabile, zucchero bianco e di canna e acqua, spiega l’artista. C’è una precisa proporzione in cui acqua e zucchero asciugando diventano solidi e non sfarinano». È una composizione equilibrata di forme geometriche, sembra quasi una città metafisica, come la piazza in cui si affaccia la vetrina, inondata da una luce quasi magica. «Le forme, prosegue l’artista, sono date da vari oggetti quotidiani che ho trovato in casa e utilizzato come stampi: forme per il ghiaccio, blister delle carte Pokemon, la pallina per mettere il detersivo nel cestello della lavatrice, e così via. Ho organizzato tutte queste forme in una più grande costruzione, una composizione in equilibrio, un paesaggio appoggiato su piccole dune di zucchero bianco lasciato nella sua consistenza naturale». È il ricordo della forma di un oggetto, una condizione transitoria di qualcosa che scivola verso la dimensione della memoria e dell’oblio.
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Piccoli dettagli, il minimo necessario per delineare un orizzonte, un’architettura o ciò che di essa resta. Un’attitudine condivisa anche da Luisa Lambri, con «Untitled» 2020 (Thomas Dane Gallery) a Palazzo Rivera, in dialogo con un meraviglioso e antico «San Michele Arcangelo» (Alessandro Cesati), opera lignea policroma del Maestro della Madonna del Duomo di Spoleto, l’angelo della luce che custodisce il mondo. Quella medesima luce attraversa gli scatti degli intonaci pompeiani su cui si è concentrata Luisa Lambri: «Fotografie di stanze, spiega l’artista, le immagini che permangono negli spazi distrutti, le immagini che hanno resistito e che continuano ad esistere, nonostante la distruzione di quella violenta esplosione vulcanica. Spazio, luce e colore è tutto ciò che di quelle immagini rimane».
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Una sorta di catarsi, in fondo, per rinascere anche attraverso l’arte. Per liberarsi della rabbia, perché come ha ricordato Pascale Marthine Tayou (Galleria Continua) nelle amichevoli conversazioni del ciclo «Caffè con l’artista»,che ogni mattina arricchiscono l’offerta culturale di «Panorama», quando siamo arrabbiati non siamo mai felici. E allora l’arte esorcizzi il dolore e la cattiveria del mondo, cui ci mette a tu per tu, in Palazzo Rivera, il «Diavolo o Angelo ribelle cadente», splendida opera in legno del 1660-80 ca di scultore napoletano della cerchia di Luca Giordano (Botticelli Antichità), che ci sorprende, insieme alla sua ombra, appeso al soffitto, mentre due altoparlanti nella medesima stanza mandano in loop l’installazione sonora «Never be my friend» di Beatrice Marchi, 2014 (Federico Vavassori), un brano composto musicando un litigio pubblicato su Facebook.
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«Panorama» è una mostra itinerante, collettiva e corale, sia nel tempo che nello spazio. E lo è nel senso che il coro aveva per l’antico teatro greco, dove era il luogo della collettività. L’artista è l’attore, L’Aquila il suo coro. Due elementi della medesima importanza come ci ricorda, infine, un altro dialogo in Palazzo Rivera, quello tra Diego Perrone e il raffinatissimo, raro e prezioso «Compianto con Maria, san Giovanni evangelista e Giuseppe di Arimatea (o Nicodemo)», 1505 ca, di Gasparo Cairano (Carlo Orsi), importantissima opera in marmo realizzata dall’antico artista bresciano come sommità del monumento Martinengo, oggi custodito nel Museo di Santa Giulia. L’opera è abbracciata dalle stampe fotografiche della serie «Maschera dell’idiota (Adolfo Wildt)», 2013, di Diego Perrone, disposte a semicerchio, come un coro. «Perrone, spiegano dalla Galleria Carlo Orsi, si è agganciato al tema della risposta corale della collettività e ha realizzato queste maschere ispirate alla tragedia greca, indossate dal coro che rappresentava la collettività e, in questo caso, la collettività che risponde a uno dei momenti più drammatici dell’Occidente: la rappresentazione del Cristo morto».
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Giorno 2

Se l’intenzione di Italics con «Panorama» è quella di raccontare l’Italia attraverso l’arte, come ha ricordato ieri Lorenzo Fiaschi, bisogna riconoscere che nell’edizione aquilana curata da Cristiana Perrella quest’operazione riesce in modo ineccepibile. L’Aquila è un’araba fenice, una città dall’anima resiliente che colpita quasi mortalmente, più o meno ogni due secoli, da terremoti devastanti ogni volta rinasce nel medesimo luogo, abbracciata dalla bellezza incontaminata di un paesaggio appenninico cui deve la sua forza e la sua debolezza. Passeggiando per le strade di un centro storico quasi completamente ricostruito, ma non ancora troppo abitato, si incontrano qua e là alcuni edifici messi in sicurezza, fragili involucri tenuti insieme da cinghie, barre d’acciaio e da foreste di tubi innocenti al loro interno. Simili a esoscheletri, turbano e commuovono, si percepisce lo sforzo che li tiene insieme, grazie al quale restano miracolosamente attaccati alla loro forma, al loro essere nel mondo.
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Tra i primi a tornare in città all’indomani del terremoto c’è stato il giovane restauratore Diego Marchetti, che qui ha riaperto senza esitare la sua bottega di restauro Stile Novecento. Questo luogo in cui si respira l’odore di cera e trementina, con le quali restaura i mobili antichi, ospita la «Rivoluzione» (2023) di Jacopo Benassi (Alessandra Minini), una composizione di vetri, fotografie di spine e ginestre, un dipinto raffigurante il Gran Sasso, un piede in gesso e delle zeppe di legno, il tutto tenuto insieme da cinghie in forte tensione. «Lavoro molto con le cinghie, spiega Benassi, che qui a L’Aquila sono molto presenti e reggono i palazzi, c’è una profonda connessione tra questo posto e il mio lavoro. Questo lavoro è tutto basato sulla fragilità, quella del vetro e del legno che non sono incollati, e sulla forza, quella delle cinghie che sono molto in tensione, con una forza tale che non so come facciano a non spaccare i vetri, ma se le allentassi tutto cadrebbe».
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Una connessione alla cui base c’è un profondo desiderio di ricostruzione e di rinascita condiviso dall’opera di Paolo Icaro, «Il sogno dello spigolo» (1970-23) (Galleria Massimo Minini), esposta nel cortile del MaXXI. «Lo spigolo è di tutti e di nessuno, ci circonda, è un luogo magico, il luogo di una linea ideale che io ho ritrovato nella forma standard di una barra d’acciaio, spiega l’artista. Ho lavorato la barra per avere uno spigolo vivo e l’ho trattato come un essere vivo: ho pensato che lasciandolo riposare disteso in orizzontale appoggiato su un cuscino, sognasse di diventare uno stimolo simbolico per una ricostruzione alla quale sento il dovere di partecipare. La barra sogna di essere uno stimolo a una verticalità espressa dall’altra mia opera, costituita da un filo a piombo. Come Italics, ovvero quelle popolazioni italiche che hanno scelto la nostra terra per la bellezza del suo paesaggio, e che rappresentano gli italiani nel loro farsi, quest’opera è la misura simbolica di un lavoro da fare».
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La bellezza di questi paesaggi che hanno conquistato le popolazioni italiche è ancora oggi qui costituito da una riserva di parchi e boschi che sono uno dei polmoni d’Europa. «L’attenzione all’ambiente come attitudine militante, spiega Cristiana Perrella, è uno dei fil rouge della mostra». La «Bandiera naturalizzata L’Aquila 2023» che Gianni Caravaggio (kaufmann repetto) sventola davanti al Munda, sorretta da una lunga asta in legno di faggio, è composta da ritagli di lino, cotone e seta dai profili frastagliati ispirati allo skyline dell’Appenino abruzzese, disegnati dall’artista durante una passeggiata errante. È il simbolo di un’identità geografica e sociale di cui gli abruzzesi sono molto consapevoli.
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L’attenzione all’ambiente è anche nel lavoro «Comrades against extinction» (2022) nato dalla collaborazione tra la scrittrice e attivista Redha D’Souza e l’artista Jonas Staal (Laveronica Arte Contemporanea), esposto al Munda. Nella sala dov’è custodito il gigantesco mammuth che in vita, circa 1,3 milioni di anni fa, pesava 11.500 Kg (100 Kg solo la zanna), scorre il video di una performance che pone l’accento sull’urgenza della sostenibilità climatica e ambientale attraverso una riflessione sull’estinzione: un lungo corteo sfila con dei cartelli ove sono raffigurati animali estinti, mentre un canto recita luoghi e data della loro ultima apparizione sulla Terra. I medesimi animali sono poi il soggetto della serie di 74 dipinti «Comrades in Extinction» (2021-22) a Palazzo Rivera, ciascuno accompagnato dalla parola Comrade (compagno) in varie lingue anch’esse estinte. Sì, anche le culture si estinguono.
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Per questo è molto importante preservare gli ecosistemi culturali che caratterizzano un territorio e, ove non è possibile, conservarne almeno la memoria. L’Abruzzo è stato ed è un palcoscenico importante per l’arte del nostro tempo. Giuseppe Stampone, artista abruzzese doc, ne ha fatto il tema del suo lavoro «Aprutium» (2023) (Prometeo Gallery Ida Pisani), cui è dedicata una sala a Palazzo Rivera. «Le mie prime esperienze con l’arte sono state le mostre di Pieroni a Pescara, dove ho conosciuto Spalletti, Kounellis ecc, poi “Fuori Uso”, la rassegna di arte contemporanea diffusa ideata da Cesare Manzo a Pescara nel 1990 curata, tra gli altri, da Giacinto Di Pietrantonio, spiega Stampone. Ho incentrato il mio progetto per Italics su tre figure cardine del nostro territorio: Spalletti, Beuys e Mauri. Mauri è stato il mio insegnante all’Accademia di Belle Arti, Spalletti è un esempio del made in Abruzzo nel mondo. Mi dedico molto alla postproduzione, alla citazione rivisitata, sto catalogando tutti gli oggetti dell’arte attraverso il dialetto pescarese, chietino, romano e aquilano, è un’operazione antropologica in cui è determinante l’identità di questa terra. Trovo che l’artista abbia l’obbligo di rappresentare la propria terra attraverso la consapevolezza del mondo. Ho realizzato anche una mappa tattile con la scritta “Forte e gentile” che identifica gli abruzzesi, e le immagini di Beuys, Spalletti e Mauri. E poi c’è un’opera omaggio alla grande azione “Difesa della natura” di Beuys, che in Abruzzo ha soggiornato molto spesso».

Sono molte le figure abruzzesi di grande spessore, come lo scrittore, giornalista e critico d’arte Giorgio de Marchis Bonanni d’Ocre (1930-2009). Aquilano, vissuto a Roma, ha istituito all’Aquila poco prima della sua morte la Fondazione Giorgio de Marchis Bonanni d’Ocre. Per «Panorama» Palazzo Cappa Cappelli ospita il disegno di Giacomo Balla «Esplosione fiore n. 17» (1929 ca) (Bottegantica), insieme a una selezione di materiali dell’archivio de Marchis su Giacomo Balla e a materiali dello spettacolo «Gran serata futurista 1909-30» (1980) di Fabio Mauri. Attorno al disegno di Balla, dunque, una circolazione tutta aquilana che ha portato a uno dei primi esempi di valorizzazione della stagione futurista dopo un periodo di oblio. Sono qui esposti materiali dall’archivio de Marchis sulla mostra curata da Palma Bucarelli per il centenario della nascita di Balla nel 1971 alla Gnam; materiali dallo spettacolo della «Gran serata futurista» del 1980 ideata da Fabio Mauri durante la sua docenza di Estetica all’Accademia dell’Aquila (dal 1979 al 1996). Di questo spettacolo, che debuttò al Teatro Comunale de L’Aquila con la partecipazione straordinaria di Toti Scialoja e Maurizio Calvesi, si ammirano un video, una locandina, appunti e foto di scena, il costume di Balla e un paio di costumi realizzati da Giancarlo Gentilucci, anch’egli aquilano.
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Giorno 1


Si è inaugurata oggi 7 settembre all’Aquila la terza edizione di «Panorama», la mostra diffusa attraverso cui il primo consorzio italiano di gallerie, Italics, invade ogni anno per quattro giorni una diversa città italiana. Un progetto ideato nel 2020 da Lorenzo Fiaschi (Galleria Continua), presidente di Italics, che insieme alla vicepresidente Pepi Marchetti Franchi (Gagosian) in pieno lockdown ha sognato e immaginato «di far vedere l’Italia attraverso l’arte percorrendola tutta, regione per regione», come ha ricordato lo stesso Fiaschi presentando la terza edizione di una manifestazione unica nel suo genere che dopo Procida e Monopoli non smette di crescere: «Siamo riusciti ad andare oltre lo stereotipo del gallerista mercante per dare vita a un progetto culturale con patrocinio Unesco e MiC».
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Tra gli appuntamenti clou della prima giornata, la cerimonia del premio Italics d’oro: un simbolico binocolo per guardare ancora più lontano consegnato (per il tramite di Giuseppe Stampone) a Ugo la Pietra, architetto, artista e designer pescarese che da sempre lavora con il territorio, in particolare abruzzese, dove negli anni Sessanta ha anche insegnato alla neonata Facoltà di Architettura a un giovanissimo Ettore Spalletti. «Il rapporto tra arte e spazio urbano è sempre stato al centro del suo lavoro. In una città che rinasce e si ripensa come L’Aquila è stato deciso di conferirgli il premio per il valore della sua pratica, per il suo pensiero e per la capacità rigenerativa che questi possono esercitare nell’ambito di una riflessione sulla riappropriazione degli spazi della vita pubblici e privati», spiega a nome di Italics la curatrice Cristiana Perrella.

Settecento metri di altitudine alle pendici del Gran Sasso, fondata nel 1254 e poi assimilata nel Regno di Napoli, come ricorda l’imponente fortezza del XIV secolo a due passi dall’Auditorium di Renzo Piano quartier generale di Italics, «la scelta dell’Aquila, precisa Fiaschi, è stata fatta per dare un segno concreto del potere rigenerativo dell’arte su un tessuto sociale e cittadino forte e con una grande storia, una città meravigliosa e da tutti conosciuta, ma non da molti visitata. Abbiamo voluto accendere una luce sulla città, aiutare a ricucire una ferita aperta da 14 anni».
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Le opere di 62 artisti, portate dalle 56 gallerie di arte antica, moderna e contemporanea della rete, occupano 20 luoghi (6 pubblici e 14 privati) scelti dalla curatrice Cristiana Perrella fra oltre cento proposte, segno tangibile della grande partecipazione degli aquilani, abitanti di una città nascosta e da scoprire insieme alle opere disseminate nei cortili, nei palazzi, nelle botteghe, nei bar e nei tanti luoghi della socialità cittadina. Un dialogo tra antico e contemporaneo, tra memoria e futuro in un luogo che durante la sua storia si è più volte misurato con sismi distruttivi. Se ne conserva traccia non solo negli strati costruttivi, ma anche nell’ospitalità di un popolo forte e gentile tornato alla vita con la convinzione che oltre alla ricostruzione e alla laboriosità occorrono il bello e la cultura: «Vogliamo il pane, ma anche le rose», spiega il sindaco Pierluigi Biondi citando il celebre slogan utilizzato nelle proteste degli operai tessili di Lawrence nel 1912. «Italics è un importante passo nell’avvicinamento alla candidatura come Capitale italiana per la cultura 2026 ed è anche un’operazione di rilancio dei territori appenninici afflitti dallo spopolamento e dal calo demografico. La cultura è un filo d’oro per rimettere insieme oggetti rotti rendendoli ancora più unici e preziosi», prosegue il sindaco.

Ad accogliere i visitatori e a inaugurare questo raffinato percorso fatto di dialoghi e contrappunti, con dipinti, sculture, performance e installazioni, sono state le forme di pane di Luca Trevisani, segnate ad una ad una da un’impronta di scarpa, e lo striscione trainato da un piccolo aereo da turismo con la scritta «Let’s talk about art», riadattamento dell’opera di Maurizio Nannucci presentata alla Biennale di Venezia del 1978. Piccoli passi per grandi distanze. Due metafore, una dichiarazione di intenti: «Italics» è qui.
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Lorenzo Fiaschi, Alberto Di Fabio, Cristiana Perrella

Luca Trevisani

Maurizio Nannucci

Giancarlo Gentilucci per la «Gran serata futurista» di Fabio Mauri

«Aprutium» (2023) di Giuseppe Stampone

«Comrades against extinction» (2022) di Redha D’Souza & Jonas Staal

Cristiana Perrella e Paolo Icaro

«Rivoluzione» (2023) di Jacopo Benassi

Gianni Caravaggio

Jenny Dogliani, 10 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

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