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Ben Luke
Leggi i suoi articoliLa voce di James Baldwin risuona nelle gallerie del Centre Pompidou mentre un estratto del documentario di Terence Dixon «Meeting the Man: James Baldwin in Paris» (1970) viene riprodotto in loop nella prima sala della mostra «Paris Noir: circolazioni artistiche e resistenza anticoloniale, 1950-2000», aperta fino al 30 giugno. Ma all’interno della disposizione labirintica delle sale, il grande romanziere, attivista e pensatore americano si sente quasi ovunque. «Prima o poi, tutti i diseredati della Terra, in un modo o nell’altro, martedì prossimo o mercoledì prossimo, distruggeranno i ciottoli su cui sono costruite Londra, Roma e Parigi, afferma. Il mondo cambierà, perché deve cambiare». Una frase appropriata, quest’ultima, perché la mostra è l’esempio più tangibile degli ultimi tempi circa la riflessione del Centre Pompidou sulla sua rappresentazione della storia dell’arte moderna in Francia. «Paris Noir» è una storia di decolonizzazione messa in atto dagli artisti in quello che il critico culturale Paul Gilroy definisce il «Black Atlantic». Si tratta di opere di circa 150 artisti provenienti dall’Africa, dalle Americhe e dai Caraibi che hanno vissuto o sono passati per Parigi tra il 1950 e il 2000. Alicia Knock, curatrice principale della mostra, ha affermato che la mostra racconta una «storia nota, ma in qualche modo è una storia che è stata sviscerata e promossa in tutto il mondo tranne che in Francia». Lo spiega meglio nell’introduzione al catalogo, sottolineando che «mentre Parigi è stata uno spazio unico di solidarietà tra l’Africa e le Americhe, la Francia non ha mai messo in risalto il suo ruolo nell’emergere delle pratiche culturali nere». Aggiunge che gli artisti presenti nella mostra «sono inseriti in un contesto storico, quello della colonizzazione e del razzismo, in cui si sono formate le solidarietà, che la storia dell’arte in Francia non ha finora preso in considerazione». Questo nonostante le importanti mostre organizzate negli ultimi decenni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri Paesi europei.
La tempistica della mostra, a pochi mesi dalla chiusura del Pompidou per cinque anni, non è casuale. Knock afferma che si tratta di una mostra importante «simbolicamente» perché può «annunciare con speranza ciò che sarà questa nuova istituzione». Nel catalogo scrive di un altro effetto desiderato per l’ambizione «panoramica» della mostra: innescare un processo correttivo che vedrà i musei e le istituzioni accademiche francesi «acquisire, studiare e pubblicare» questi artisti. Queste aspirazioni sono palpabili in tutta la mostra, che è al tempo stesso profondamente erudita e visivamente esuberante. Di impostazione prevalentemente cronologica, le sue 15 sezioni si diramano da un nucleo centrale circolare dedicato a Édouard Glissant, poeta e filosofo martinicano il cui concetto di «Tout-Monde» o «mondo intero» ha identificato una «poetica relazionale», in cui lo scambio e l’impegno tra geografie e culture diverse rimodellano la società. A incarnare questo concetto è il legame di Glissant con lo scultore cubano Agustín Cárdenas, la cui scultura in legno «Couple Antillais» (Coppia delle Antille, 1957) riflette la continuità delle idee surrealiste del corpo frammentato e simbolico, con evidenti richiami estetici al primo Alberto Giacometti, ed esplora al contempo una forma totemica e spirituale che approfondisce i contesti culturali in cui il Surrealismo è migrato. Le sculture di Cárdenas riecheggiano le forme del suo compatriota, il surrealista Wifredo Lam, per il quale gli scritti di Aimé Césaire erano particolarmente importanti. Per Lam, il progetto decoloniale era un tema esplicito: in «Umbral (Seuil)» (1950), un dipinto raffigurante tre esseri a losanga, composti da maschere Baoulé della Costa d’Avorio fuse con simboli afrocubani che aleggiano su uno sfondo cupo, cercava di «disturbare i sogni degli sfruttatori». Lam e Cárdenas sono tra i numerosi artisti che compaiono nella mostra come punti di riferimento in una selezione straordinariamente variegata.

Demas Nwoko, «Femme sénégalaise», 1970, Collection Kavita Chellaram. © Demas Nwoko, 1960. Courtesy of New Culture foundation. All rights reserved. Photo Courtesy: kó, Lagos, Nigeria
Tra gli altri figurano Roland Dorcély, il pittore haitiano autore di «Leda e il cigno» (1958 ca), opera appartenente a una serie realizzata in risposta al mito greco, che mette in scena un corpo nero inconfondibile in un incontro sensuale con l’uccello acquatico bianco, e Beauford Delaney, il pittore americano giunto a Parigi su invito di Baldwin, autore di ritratti sorprendenti del letterato, prima di intraprendere una carriera che comprendeva anche raffigurazioni di altre persone Lgbtq+ e astrazioni che lui stesso definiva «vorticose». Delaney è il più rappresentato nella mostra. Molti degli artisti presenti lungo il percorso mi erano nuovi e immagino che pochi visitatori riconosceranno la maggior parte di loro. Forse inevitabilmente, i più familiari sono quelli statunitensi, che hanno già ottenuto riconoscimenti istituzionali e accademici, a differenza di molti altri inclusi in mostra. Knock e i suoi colleghi curatori hanno sapientemente disseminato queste figure più note, illustrando le loro connessioni all’interno di reti più ampie. In questo modo, artisti come Romare Bearden, Gordon Parks, Ed Clark e Ming Smith proiettano lo spettatore nel tema della sala. Tra le grandi rivelazioni ci sono stati Dorcély e sua cognata, Luce Turnier, un’altra haitiana. Come tanti artisti di quell’area Turnier ha viaggiato molto tra la sua terra natale, il Canada e gli Stati Uniti. Ma i suoi collage degli anni Sessanta, ritagli realizzati con mimeografo (tecnologia prototipo della fotocopiatrice), sono stati realizzati a Parigi e rispondono in parte ai cantieri edili della città del dopoguerra. Hanno un potere inquietante. L’opera di Turnier è esposta nella prima delle tre sale dedicate all’astrazione. E nonostante l’abbondanza di artisti, la mostra è organizzata con cura, con un alternarsi di temi e linguaggi artistici che crea momenti di relativa tranquillità visiva, per facilitare un percorso complesso. Nonostante sia una mostra polifonica, non è affatto cacofonica.
Dopo quel primo «salto nell’astrazione», seguono sezioni dedicate agli artisti che hanno portato le loro esperienze parigine in Senegal e in Nigeria, ai centri artistici e agli eventi autoorganizzati, poi alle solidarietà panafricane espresse nei movimenti di protesta transcontinentali, seguite dall’influenza del jazz, la forma musicale e culturale più diasporica che esista. E così via. Quattro commissioni, tutte di artisti che hanno fatto parte di quel periodo storico, aggiungono un nuovo livello di riflessione venato di malinconia, data la situazione politica tesa in cui la libera associazione e la produttività multiculturale che nella mostra abbondano sono rifiutate da gran parte della società francese contemporanea. E «Paris Noir» evita in modo cruciale una trappola ovvia: non perpetua le strutture coloniali, ritraendo Parigi come il centro gentile per visitatori riconoscenti. Definisce chiaramente la città come un luogo mobile anziché chiuso, una città di scambi reciproci, un centro relazionale, come avrebbe voluto Glissant. La sua ambizione è davvero «panoramica», per usare il termine di Knock. Di conseguenza, è impossibile coglierla appieno in una sola visita. Alcuni artisti non sono valorizzati al meglio a causa della loro scarsa presenza, con una o due opere. Ma questo fa parte della sfida urgente lanciata alle altre istituzioni. Il Pompidou ha gettato il guanto di sfida con questa mostra affascinante; ora, in questi cinque anni di assenza, spetta agli altri raccoglierlo.

Beauford Delaney, «James Baldwin», 1945-50 ca, Collection of halley k harrisburg and Michael Rosenfeld, New York. © Estate of Beauford Delaney, by permission of Derek L. Spratley, Esquire, Court Appointed Administrator, Courtesy of Michael Rosenfeld Gallery LLC, New York Photo Courtesy of Michael Rosenfeld Gallery LLC, New York