Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Più che una semplice mostra, un affresco di un’epoca, l’Età Napoleonica, che fu breve (meno di vent’anni, tra il 1796 e il 1815), ma segnata da rivolgimenti che cambiarono l’assetto geopolitico dell’intera Europa. Che nel 1815, con la sconfitta di Napoleone a Waterloo e il Congresso di Vienna, sarebbe tornata agli equilibri che avevano preceduto le apparentemente inarrestabili campagne di conquista del Generale e Imperatore. Fino all’epilogo, inglorioso. Mutato l’assetto politico, cambiarono le classi dirigenti e, nell’arte, cambiarono in conseguenza gusti e committenze, sebbene alcuni artisti che erano stati i campioni della stagione precedente (da Canova ad Appiani, a Giuseppe Bossi) seppero farsi interpreti del nuovo clima con identica grandezza.
A cambiare furono anche le capitali culturali: decadute Firenze, Venezia, Genova e Napoli, solo Roma conservò il suo ruolo di faro delle arti mentre si affacciava sulla scena Milano, che con l’Illuminismo era diventata il centro più moderno d’Italia, tanto per le riforme quanto per l’economia, mentre nelle arti diventava il laboratorio del Neoclassicismo. Diventando poi, con Napoleone, capitale politica anch’essa.
La mostra «Eterno e visione. Roma e Milano capitali del Neoclassicismo», curata da Fernando Mazzocca, Francesco Leone ed Elena Lissoni per le Gallerie d’Italia-Milano, museo di Intesa Sanpaolo dov’è visibile dal 28 novembre a 6 aprile 2026, getta uno sguardo inedito su quell’età tumultuosa, indagandola per la prima volta attraverso il prisma delle due capitali, qui messe a confronto grazie alle opere dei loro massimi artisti e artefici. A Fernando Mazzocca, che l’ha ideata, chiediamo di illustrarci le tappe più significative del percorso.
Professor Mazzocca, possiamo dire che l’annosa dualità-rivalità fra Roma e Milano sia nata allora?
Sì certo, lo si può dire, perché se prima l’Italia aveva tante capitali culturali, molte delle quali erano però decadute, in quegli anni restava la sola Roma, centro universale dell’antichità e della cristianità. Ma fu proprio allora che Milano, seppure attraverso la Francia, diventò anch’essa una capitale: economica, culturale, editoriale e politica.
La mostra prende il via, nella Sala Scala, con un colpo di teatro, esibendo il gesso colossale del cavallo di Canova per il monumento equestre a Napoleone. Che non fu mai realizzato: perché?
È una lunga storia. Va detto che a Canova furono chieste tante opere da Milano, che però non arrivarono mai: il «Perseo trionfante» fu trattenuto a Roma da papa Pio VII, il «Teseo in lotta con il centauro», che si reputò fosse più confacente del «Napoleone come Marte pacificatore» (il cui bronzo è oggi nel Cortile d’Onore di Brera, Ndr) non fu terminato prima della caduta di Napoleone, e quanto al «Napoleone come Marte», l’originale, in marmo, finì prima a Parigi poi a Londra, nel palazzo dell’odiato Wellington. Tra i tanti monumenti ambiti da Milano ce n’era anche uno equestre che avrebbe dovuto rivaleggiare, in scultura, con il capolavoro di Jacques-Louis David «Bonaparte al Gran San Bernardo» oggi a Vienna ma a quel tempo a Milano. Canova prese allora a riflettere sul «Marco Aurelio» di Roma, modello per tutti i monumenti equestri, e sul «Gattamelata» di Donatello a Padova, ma non se ne fece nulla. Creò invece un gesso per Napoli, con l’ambizione di realizzare il più grande monumento equestre d’Europa. Realizzò solo il gesso del cavallo ma, caduto Napoleone, re Ferdinando IV di Borbone (tornato sul trono nel 1815 come Ferdinando I delle Due Sicilie) decise di portare avanti l’opera sostituendo Napoleone con il padre Carlo III e ne volle uno, gemello, anche per sé (sono i monumenti di piazza del Plebiscito, a Napoli). E dei due gessi, poi donati ai Musei Civici di Bassano dopo la morte di Canova dal fratello Giovanni Battista Sartori, uno finì distrutto dalle bombe alleate mentre l’altro, gravemente danneggiato, fu smontato, e solo grazie al complesso restauro condotto da Intesa Sanpaolo con il progetto «Restituzioni», è stato ricomposto. È quello esposto in mostra, per la prima volta dopo il recupero.
Antonio Canova, «Monumento funebre a Vittorio Alfieri», 1806, Carrara, Accademia di Belle Arti
Le vicende della storia ebbero un grande peso sulla sorte di questi monumenti, ma va detto che Canova si mostrò più volte renitente di fronte alle proposte di monumenti a Napoleone: troppi impegni o altro?
Canova non amava le opere celebrative: le faceva comunque, perché non poteva esimersi. E poi nel suo intimo certo non amava i Francesi, legato com’era a papa Pio VII. Senza dimenticare che Napoleone era colui che nel 1797 aveva «venduto» la sua Venezia all’Austria con il trattato di Campoformio.
Tornando alla mostra, come procede il percorso?
Tutt’intorno al cavallo colossale, nelle prime salette, abbiamo posto i modelli cui Canova guardò, fra i quali, dal Mann di Napoli, la «Protome Carafa» di Donatello, la meravigliosa testa di cavallo in bronzo destinata a un monumento ad Alfonso V d’Aragona, mai realizzato. Di seguito c’è una sezione che rievoca la nascita dell’immagine allegorica dell’Italia così com’è stata tramandata, che prese forma in quegli anni tra Roma e Milano grazie a Canova e a Giuseppe Bossi, pittore (l’immagine guida della mostra è sua, e in mostra c’è, tra l’altro, lo spettacolare e poco noto «L’incontro di Edipo cieco con le figlie», così simile ai gessi di Canova conservati nel museo contiguo delle Gallerie d’Italia) ma anche grande erudito, studioso celebrato di Leonardo, collezionista raffinato (l’«Uomo vitruviano» di Leonardo, oggi a Venezia, era di sua proprietà e così pure il «Cristo morto» di Mantegna di Brera) e segretario della potente Accademia di Brera. I due erano cari amici: quando Canova veniva a Milano era ospite di Bossi, e fu solo grazie a lui se giunsero a Milano i gessi di Canova. Si scrivevano quasi quotidianamente: si scambiavano pareri (anche severi) sulle proprie opere, si confrontavano fra loro.
Esponete anche esempi di arti decorative?
Certamente, c’è una sala dedicata, perché in quegli anni di generale arricchimento dei nuovi potenti, fiorì un mercato internazionale di oggetti di questa natura, specie di raffinati bronzi dorati. Ma un altro momento spettacolare, nel salone successivo, è quello dedicato all’incoronazione di Napoleone, a Milano, il 26 maggio 1805. Qui sono esposti il magnifico mantello ricamato in oro, la corona, lo scettro e una copia della «Corona ferrea», perché con quella (l’originale ovviamente, cinta da Carlo Magno) Napoleone volle essere incoronato. Insieme, un bellissimo ritratto di Appiani di Napoleone re d’Italia «en petit habillement», che ho da poco ritrovato. E, accanto, è ricostruita la «magnifica utopia» del Foro Bonaparte di Milano, progettato da G.A. Antolini, che non si poté realizzare per i costi esorbitanti. Qui esponiamo un elemento nuovo: la raccolta custodita alla Bibliothèque nationale de France, già pubblicata da Aurora Scotti ma mai esposta prima, dei disegni progettuali che Antolini donò all’Imperatore. Chiudiamo con i ritratti dei protagonisti di quella stagione: da Parini, che dettò le iconografie di tante imprese decorative, al giovane Manzoni, da Foscolo a Vincenzo Monti, con i busti, quasi speculari, di Bossi e Canova.
Francesco Hayez, «La morte di Abradate», 1813, Collezione Fondazione Cariplo Milano, Gallerie d’Italia-Piazza Scala. Photo: Paolo Vandrasch, Milano