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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliLa parola «brigante» nasce ben prima dell’Italia unita, secondo le ricostruzioni più accreditate deriverebbe dal francese «brigand», che a sua volta rimanda al verbo «brigailler», ovvero «fare la guerra», «contendere». In origine indicava chi combatteva fuori dagli eserciti regolari, spesso per necessità più che per vocazione. Solo più tardi, nella declinazione italiana, la parola si tinge di sospetto e condanna.
Una metamorfosi restituita dalla mostra «Briganti! Storie e immagini dal Risorgimento a oggi!», al Museo Nazionale del Risorgimento Italiano fino al 30 marzo 2026. Curata da Silvia Cavicchioli, Gian Luca Fruci, Silvano Montaldo, Alessio Petrizzo, Carmine Pinto e Giulio Tatasciore, l’esposizione indaga la storia del brigantaggio e della sua rappresentazione nell’arte, nel cinema e nell’iconografia popolare dalla fine del Settecento al Novecento. «Eroica resistenza meridionale all’unificazione o sfida allo Stato di bande criminali?».
Questa la domanda da cui nasce il percorso scandito da oltre 200 dipinti, stampe, uniformi militari, fotografie, pugnali, amuleti, manifesti cinematografici e materiali multimediali. Tra le prime opere in mostra «Retraite de brigands» (1824) di Léopold Robert: un gruppo di uomini armati si rifugia tra le montagne. È un’immagine che precede di decenni l’Unità d’Italia ma che già fissa l’archetipo romantico del ribelle, sospeso tra eroismo e miseria. Da quell’immaginario europeo, in cui il brigante è figura di libertà selvaggia, ci si avvia verso l’Italia del 1861, dove l’Unità si compie tra contraddizioni e lacerazioni. Il fervore patriottico del marmo di Alfonso Balzico, «Il plebiscito a Napoli» (1861) si incrina nel dipinto di Cecrope Barilli, «Scena di brigantaggio» (1863), dove una donna giace a terra, colpita durante un rastrellamento, mentre il cielo terso illumina la violenza di una guerra civile non dichiarata.
Il brigante non è più il ribelle romantico, ma l’oppositore del nuovo ordine, il segno delle tensioni che attraversano un Paese appena nato. Tra queste opere è compresa la parabola del sogno risorgimentale: dall’entusiasmo della conquista all’ombra della repressione. A incarnare la dimensione umana del conflitto vi sono anche i volti fotografati dei briganti e delle brigantesse. L’immagine celebre di Michelina Di Cesare, con il fucile stretto tra le mani e lo sguardo fiero, riporta nel presente la forza femminile della rivolta, in netto contrasto con l’iconografia ufficiale incarnata dal «Giuseppe Garibaldi» del 1845 di Jean Malinski. L’eroe dei vincitori e la ribelle dei vinti si fronteggiano, come due volti di una nazione unita ma ancora divisa. La sezione conclusiva sposta poi lo sguardo sul mito e la sua trasfigurazione nel Novecento. Il manifesto cinematografico di «Fra’ Diavolo» (regia di Luigi Zampa, 1942) testimonia come il brigante sia diventato icona popolare sospesa tra folklore e tragedia. Il cinema, la letteratura e le arti visive hanno continuato a riscrivere la storia del brigantaggio, che ha incarnato il riflesso delle contraddizioni italiane e il simbolo di una libertà pagata con l’emarginazione. La mostra è accompagnata da incontri e proiezioni cinematografiche e corredata da catalogo Allemandi. L’allestimento, in cinque sezioni cronologiche e tematiche, alterna documenti, dipinti, sculture e materiali audiovisivi in un racconto dove l’arte e la storia confluiscono in un’unica costellazione visiva che racconta dunque la nascita del Paese insieme alla difficoltà di riconoscersi nella stessa storia e nella stessa identità, la Storia non è mai una linea retta, ma un campo di forze in cerca di equilibrio.
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, To, mar-dom 10-18, museorisorgimentotorino.it, «Briganti!» fino al 30 marzo 2026
Alfonso Balzico, «Il plebiscito a Napoli», 1861, Torino, Museo Nazionale del Risorgimento Italiano