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Germano D’Acquisto
Leggi i suoi articoliChe cosa succede quando il design smette di essere al servizio dell’uomo e comincia a farsi carico delle esigenze di api, alghe, coralli, formiche e persino dei diritti legali dei fiumi? La risposta, tra il poetico e il politico, la dà il Design Museum di Londra con «More than Human», la prima grande mostra nata dalla collaborazione con Future Observatory, programma nazionale di ricerca sul design e sulla transizione verde. Un titolo che suona come un manifesto: «più-che-umano», ovvero un modo nuovo di abitare il pianeta, condividendo spazio, tempo e attenzione con tutto ciò che umano non è. E spesso ci sopravvive.
Dall’11 luglio al 5 ottobre, il museo si trasforma in un laboratorio multispecie, un’arca progettuale dove il concetto stesso di design viene decentrato, liberato dall’egemonia antropocentrica e restituito al suo senso più radicale: «progettare con e per il vivente», come direbbero i curatori Rebecca Lewin e Justin McGuirk, che non a caso parlano di «una rivoluzione copernicana del design del XXI secolo». Niente meno.
E così, al posto di sedie ergonomiche o lampade minimal, ecco che si staglia un arazzo di otto metri firmato da Moth (More Than Human Life Project), un intreccio visivo e concettuale che racconta i tentativi, sempre più numerosi, di riconoscere diritti giuridici a fiumi e bacini idrici: un Parlamento della natura, illustrato. Poco distante, la britannica Alexandra Daisy Ginsberg ci invita a osservare il mondo con gli occhi di un’impollinatrice, grazie a un giardino immaginario progettato da un algoritmo florovivaista e pensato non per il nostro piacere estetico, ma per il benessere delle api. Un ribaltamento della prospettiva che è anche un atto di empatia.
Ma il percorso espositivo, suddiviso in tre sezioni («Being Landscape», «Making with the World», «Shifting Perspective»), non si limita a esercizi di stile etico. Al contrario, è un’ode visiva alla complessità, che mescola artigianato indigeno e tecnologia ecologica, ritualità animiste e biomateriali sperimentali. Ci sono le maschere di pannocchia bronzea di Jonathan Baldock, reminiscenza pagana dell’Inghilterra rurale; le pitture selvatiche e sensuali di Solange Pessoa; le fotografie dei «Rumiti», uomini-albero del sud Italia, che celebrano l’intimità tra carne e corteccia.
Si passa poi al fare, con la sezione «Making with the World» («Creare con il mondo»), nella quale il design smette di risolvere problemi per iniziare a ricucire relazioni spezzate. Le trappole da pesca tradizionali di Indonesia, Myanmar o delle coste swahili dialogano con barriere marine progettate per far rifiorire i coralli, come quelle della Reef Design Lab, mentre i padiglioni in mattoni grezzi e non cotti di Elina Koivisto e Maiju Suomi offrono rifugio a umani e insetti: microarchitetture che suggeriscono coabitazioni possibili, lontane dalle logiche dell’estrazione e dell’esclusione.
Infine, «Shifting Perspective» («Cambiare prospettiva») ci chiede un’ultima acrobazia cognitiva: considerare come gli altri esseri viventi percepiscono il mondo. Che forma ha una casa per un polpo? A rispondere, con ironia e dedizione, è l’artista giapponese Shimabuku, che ha progettato sculture sottomarine colorate per sedurre i cefalopodi e osservarne i gusti cromatici. E poi ci sono i nidi di vespe, formiche e uccelli, architetture silenziose che parlano di istinto, ingegno e necessità. Niente fronzoli, solo sopravvivenza.
A chiudere, come un respiro profondo, l’installazione immersiva in alghe marine di Julia Lohmann: una foresta sottomarina da attraversare, odorare, ascoltare. Un invito a rallentare, a disimparare, a lasciarsi sommergere, letteralmente, da altre logiche, altre presenze, altri mondi.
Nel suo insieme, «More than Human» è molto più di una mostra: è un esercizio di umiltà. Una lezione (non scontata) su come la cultura, l’arte e l’architettura possano contribuire, con bellezza e intelligenza, alla transizione ecologica. E magari farci uscire dal museo con la sensazione che il futuro, se non altro, non sarà più solo una faccenda umana.

Una veduta dell’Alusta Pavilion di Suomi/Koivisto Architects. Photo © Maiju Suomi/Elina Koivisto. Courtesy of the The Design Museum