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Una veduta della mostra «Marina Abramović» da Saatchi Yates, Londra

© The artist. © 2025 Saatchi Yates

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Una veduta della mostra «Marina Abramović» da Saatchi Yates, Londra

© The artist. © 2025 Saatchi Yates

A Londra milleduecento volte Marina Abramovic

Tratti da «Video Portrait Gallery» (1975-2002), opera seminale della performance artist serba, due filmati a lungo dimenticati riprendono vita in un’ipnotica sequenza di fermo immagini alla Saatchi Yates

Quasi non serve entrare alla Saatchi Yates per percepire il richiamo all’osservazione incarnato da «Marina Abramović» (fino al 31 ottobre), personale realizzata in collaborazione con la madrina della performance art (Belgrado, Serbia, 1946) presso la galleria londinese. Già da fuori si nota come due fasce parallele posizionate l’una sull’altra al centro delle pareti, una rossa e una blu, ricoprano senza soluzione di continuità il perimetro della location, interrompendo la monocromia dei suoi interni industriali. Se dalla strada è difficile distinguere le immagini che le compongono, i toni sgargianti, quasi infrarossi, delle stesse, riescono da sé a convincere i passanti a varcare la soglia di Saatchi Yates.

A caratterizzare l’atmosfera della mostra, che riunisce oltre 300 fermo immagini di «Red Period» e «Blue Period» (1998), due sue video performance, e selezionati tra i 1.200 scelti dalla stessa artista, è la sua ambivalenza. Nell’entrare, si ha l’impressione di essere osservati, o meglio, accerchiati, da Abramović, il cui viso, unico protagonista di ciascuna fotografia in un dialogo continuo tra l’estetico, il piacere, la vanità, l’oscuro, il dolore, il disgusto e la fantasia, è reso drammatico dai neon che si riflettono sulle opere, trasformandole in una scena da film di fantascienza. Eppure siamo noi, il pubblico, a ispezionarla in tutte le sue sfaccettature; noi ad associare significati letterali o emotivi ai personaggi in cui ci si presenta, a seconda della prospettiva visiva, artistica, o interiore da cui la si guarda. 

Nella fila superiore, l’artista oscilla l’indice a mo’ di lancette dell’orologio di fronte alla sua faccia, sorridendo. Pare invitare gli spettatori al gioco: li guarda negli occhi con aria di sfida per poi mostrarsi, a tratti, dolce e innocente, nostalgica e assorta, eterea, aliena, affascinante, desiderosa. Potrebbe stare agendo davanti a qualcun altro o, più semplicemente, potrebbe starsi guardando allo specchio. Basta il minimo movimento della frangia, un battito di ciglia, il suo appoggiare o rimuovere le mani da collo, guance e fronte, per farle acquisire un aspetto nuovo. Abramović è tutte le donne e nessuna, quelle più celebri e quelle il cui nome non è dato sapere, tanto simile a Isabella Rossellini nel film «Velluto Blu» (1986), quanto alle sex worker che brillano nelle vetrine del Red Light District di Amsterdam la notte per poi scomparire, come lucciole, sul fare del giorno. 

Quella inferiore invece, accesa di un blu violaceo, la ritrae mentre si mangia le unghie, stesso sguardo impudente. Questa volta sono le sue dita che, assieme alla bocca, prendono il sopravvento di fotogramma in fotogramma, dove si muove tra l’ammiccante e l’annoiato, alternando espressioni pensose a momenti di rabbia, tensione, sensualità e puro orrore. 

Marina Abramović, «Red Period 012». © The artist. © 2025 Saatchi Yates

Marina Abramović, «Blue Period 498». © The artist. © 2025 Saatchi Yates

«Red Period» e «Blue Period» fanno parte della 16-channel installation «Video Portrait Gallery» (1975-2002), che racchiude 14 delle performance da lei sviluppate riguardo ai limiti, le potenzialità e la capacità di sopportazione di mente e corpo. In «Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful», uno dei primi filmati raccolti in questo progetto, una Abramović 29enne si pettina, dapprima, dolcemente, muovendo ciocche di capelli nero corvino dietro alle orecchie, poi, sempre più aggressivamente, in una metafora lampante della violenza che si cela dietro agli ideali di bellezza e ai sacrifici fatti nel tentativo di essere alla loro altezza. In «Cleaning the Mirror» (1995), l’artista, vestita in abiti chiari e seduta su una sedia, strofina vigorosamente uno scheletro umano coperto di sudiciume tenendolo in braccio, intingendo una spazzola in un secchio d’acqua putrida e ricoprendosi così del fango creato da questa. 

Nelle opere in visione a Saatchi Yates, ritrovo lo stesso livello di ossessione, ma riconosco anche l’abilità di Abramović di mostrare come qualsiasi aspetto della vita, se esasperato, sfocia in ciò che non ti aspetteresti: l’estetica si tramuta in bruttezza; la ricerca della perfezione in un incubo; il desiderio di essere notati crea dipendenza. L’amore idealizzato affievolisce in disillusione. Forse è per questo che, da 50 anni a questa parte, ha sperimentato su entrambi i fronti: per restare in equilibrio tra poli opposti.

Come per «Rhythm 0» (1974), che ancora oggi ci insegna come il male possa annidarsi in ciascuno di noi, e «The Great Wall Walk» (1988), i tre mesi di trekking lungo la Grande muraglia cinese culminati nel suo addio a Ulay (nato Frank Uwe Laysiepen, Solingen, 1943-Ljubljana, 2020), suo partner creativo e romantico dal 1966, questa mostra ci spinge oltre la percezione di noi e degli altri

Una cosa è cambiata però: se un tempo Abramović scherzava con la morte, esorcizzandola nei suoi lavori, oggi vuole «solamente vivere», come ha detto al magazine «AnOther» nel 2023. E quale miglior modo di vivere che festeggiare l’apertura della propria personale con un rave? Chissà che cosa accadrà quando una continuazione della mostra approderà nel Marais in un Art Basel Paris pop-up organizzato da Saatchi Yates (21-26 ottobre).

Una veduta della mostra «Marina Abramović» da Saatchi Yates, Londra. © The artist. © 2025 Saatchi Yates

Gilda Bruno, 15 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

A Londra milleduecento volte Marina Abramovic | Gilda Bruno

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