Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Jeff Wall, «Dressing Poultry», 2007

© Jeff Wall. Courtesy: Cranford Collection, London

Image

Jeff Wall, «Dressing Poultry», 2007

© Jeff Wall. Courtesy: Cranford Collection, London

A Bologna il rapporto tra immagini e vita quotidiana di Jeff Wall

La Fondazione Mast dedica all’artista canadese una grande retrospettiva in occasione di Foto/Industria

A Bologna, la Fondazione Mast dedica a Jeff Wall (Vancouver, 1946) la mostra «Living, Working, Surviving», allestita fino all’8 marzo 2026 nell’ambito della settima edizione di Foto/Industria, la Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro promossa dalla Fondazione bolognese. La mostra segue di poco quella alle Gallerie d’Italia di Torino (aperta fino al primo febbraio 2026), ma con un approccio differente: mentre a Torino si offre una visione complessiva del percorso dell’artista, al Mast l’attenzione si concentra sul rapporto tra immagini e vita quotidiana, sui gesti minimi che attraversano l’esistenza, il lavoro e le relazioni umane.

Questo orientamento rispecchia la natura stessa del Mast-Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, centro culturale non profit nato su iniziativa di Isabella Seragnoli, che pone al centro la riflessione sulle trasformazioni del lavoro e sulle forme di convivenza sociale.

Curata da Urs Stahel, la mostra riunisce 28 opere tra lightbox e stampe, a colori e in bianco e nero, realizzate tra il 1980 e il 2021 e provenienti da collezioni private e musei internazionali. La selezione non segue un ordine cronologico, ma costruisce un attraversamento: un paesaggio visivo in cui i gesti quotidiani si caricano di tensione narrativa e la quiete apparente si accompagna a una lieve inquietudine.

In conferenza stampa, Wall, un uomo alto, con voce pacata, appare esattamente come le sue opere: enigmatico. Guardandole, le domande vengono spontanee: chi sono le persone ritratte? Attori o individui incontrati per caso? Gli spazi sono luoghi reali o ricostruiti? Questa ambiguità non è un effetto stilistico, ma il cuore stesso della sua pratica: ricreare dalla memoria significa mettere in discussione l’idea della fotografia come testimonianza immediata e definitiva. «Perché il bello del vedere è che c’è sempre qualcosa che non si vede», viene riportato nel catalogo della mostra.

La sua poesia risiede proprio nel far affiorare ciò che solitamente resta ai margini dello sguardo. La cinematografia, il fotogramma come soglia tra immobilità e movimento, diventa un modello per immagini che non raccontano una storia chiusa, ma ne aprono molte possibili.

In questo senso, «Volunteer» del 1996, esposta per la prima volta a Documenta X nel 1997, segna un passaggio importante. È la sua prima grande immagine in bianco e nero, una stampa alla gelatina d’argento montata su telaio e incorniciata. L’uomo ritratto è un volontario di un rifugio per senzatetto: Wall lo ha incontrato per caso, lo ha assunto per un mese e lo ha fotografato in uno spazio costruito appositamente, chiedendogli soltanto di comportarsi come avrebbe fatto nella sua quotidianità. «L’ho seguito per un mese, ma è venuta fuori una sola fotografia buona. Non gli ho mai parlato né l’ho mai diretto», racconta l’artista.

A grandezza naturale, lo sguardo dell’uomo è frontale, trattenuto, come se custodisse qualcosa che non può essere detto. È in quella sospensione che l’immagine si apre e ci trattiene.

Jeff Wall, «Volunteer», 1996. © Jeff Wall. Courtesy: Glenstone Museum

È lo stesso Wall a spiegare la scelta del grande formato. In un articolo pubblicato su «Artforum» nel 2003, scrive: «Pur amando la fotografia, spesso non mi piaceva guardare le fotografie, soprattutto quando erano appese alle pareti. Le ritenevo troppo piccole per quel formato e avevano un aspetto migliore se viste in libri o sfogliate in album. Amavo guardare i dipinti, però, soprattutto quelli realizzati in una scala sufficientemente grande da essere facilmente visibili in una stanza».

Il grande formato non è dunque un espediente spettacolare, ma una questione di relazione: l’immagine deve poter condividere lo spazio con chi la guarda. Non si tratta di ingrandire, ma di permettere all’immagine di esistere come presenza, non solo come rappresentazione.

Dal 1987 il suo studio si trova in un quartiere difficile del centro di Vancouver, abitato da persone a basso reddito o senza fissa dimora, che l’artista ha paragonato ai bassifondi di San Pietroburgo descritti negli Umiliati e offesi (1861) di Dostoevskij. Questa prossimità gli ha permesso un contatto diretto con situazioni di marginalità, senza trasformarle in denuncia. Un esempio è «Overpass» del 2001, realizzata proprio nei pressi del suo atelier: quattro figure avanzano lungo un cavalcavia, provenienze diverse, un trolley trascinato, un silenzio condiviso. L’immagine non interpreta: osserva. È una sospensione che affida il senso allo sguardo di chi guarda.

E se vogliamo trovare un’unica immagine realmente documentaria della mostra, dobbiamo soffermarci su «Cold Storage, Vancouver» del 2007. Nessuna messa in scena: un magazzino refrigerato abbandonato, una massa compatta di ghiaccio stratificata sul soffitto. Paradossalmente, proprio qui si chiarisce uno dei temi centrali del suo lavoro: fotografare significa sempre congelare un momento. In «Cold Storage» il soggetto è già congelato, prima dello sguardo.

Le immagini di Jeff Wall invitano a tornare, a riguardare, a restare. «Living, Working, Surviving» mette lo spettatore di fronte a gesti che conosce, a vite che sfioriamo ogni giorno, a un tempo che continua anche quando sembra immobile.

La mostra è a ingresso libero e accompagnata da incontri, visite e un catalogo edito da Schirmer/Mosel. Basta aprire la porta: il resto accade guardando.

Jeff Wall, «Overpass», 2001. © Jeff Wall. Courtesy: Private Collection Gagosian

Rischa Paterlini, 27 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

A Bologna il rapporto tra immagini e vita quotidiana di Jeff Wall | Rischa Paterlini

A Bologna il rapporto tra immagini e vita quotidiana di Jeff Wall | Rischa Paterlini