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Voyeur in atelier

Luana De Micco

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Esplorati dagli obiettivi dei fotografi, gli studi degli artisti, da Ingres a Jeff Koons, rivelano segreti di bottega e metodo di lavoro, ma anche l’intimità dei loro abitatori

Siamo nell’atelier di Claude Monet, a Giverny. È il 1920 circa. Un divanetto in disordine, oggetti sparsi su un tavolino e sullo sfondo due immense tele con le celebri «Ninfee». Il pittore impressionista, tavolozza in una mano, sta scegliendo un pennello tra tanti. Lo scatto è di Henri Manuel. È ora il 1986 e Charles Matton immortala un angolo dello studio di Francis Bacon con fogli di giornale sparsi, barattoli di colori, una montagna di stracci, astucci di pennelli e schizzi di colore ai muri. L’atelier sembra trasformarsi in opera d’arte.

Altro artista, altro ambiente. Bianco alle pareti e luci al neon, tubi di colore, flaconi sparsi, una faccia verde di Hulk: l’atelier newyorkese di Jeff Koons è stato fotografato nel 2005 da Gautier Deblonde. La tradizione pittorica, da David a Courbet, ci aveva già tramandato in passato immagini in cui è l’artista stesso, col suo punto di vista soggettivo, a mettersi in scena nel proprio atelier. L’obiettivo della macchina fotografica funziona invece come l’occhio di un voyeur che spia nell’intimità dell’artista. Col suo sguardo privilegiato, discreto o invadente, documentario o critico, il fotografo apre a tutti le porte di un mondo che conserva ancora un certo sapore bohémien.

La mostra «Nell’atelier. L’artista fotografato da Ingres a Jeff Koons», dal 5 aprile al 17 luglio al Petit Palais, spiega come sin dai suoi albori la fotografia ha contribuito al consolidamento di questo mito. «È interessante notare come il termine “atelier” entra nel dizionario quasi contemporaneamente alla nascita della fotografia, sottolineano le curatrici Delphine Desveaux, Susana Gállego Cuesta e Françoise Reynaud. La coincidenza è importante. Se la “veduta dell’atelier” era già un genere in pittura, è con la fotografia che diventa popolare. Ma una foto di atelier è diversa, intanto perché non è realizzata dall’artista che vive in quel luogo e poi perché milioni di occhi avidi si trovano potenzialmente dietro l’obiettivo». Sono in mostra più di 400 scatti, in bianco e nero, a colori, d’epoca o più recenti.

La prima sezione, «L’artista nella sua grandiosità», spiega che la foto d’atelier nasce dall’analoga volontà dell’artista e del fotografo di mettersi in mostra, il primo per vanità, il secondo per desiderio di affermazione. La seconda, «La vita nell’atelier», racconta il luogo dove si «cucina» l’opera d’arte, in un viavai di modelle, collezionisti, colleghi, allievi, in contrasto con l’idea dello studio come luogo di solitudine e raccoglimento. L’ultima sezione, «Meditazioni fotografiche», è una riflessione sul lavoro del fotografo, su come quest’ultimo si appropria degli spazi per poter far parlare gli oggetti che lo popolano.

Luana De Micco, 04 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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