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Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliRoma. Una mostra presso l’Istituto Centrale per la Grafica celebra uno dei più grandi incisori della seconda metà del Novecento, Jean-Pierre Velly (Audierne, Francia,1943-Trevignano, 1990).
Come sottotitolo della mostra, i tre curatori, Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani e Marco Nocca, hanno scelto di indicare le due polarità del segno, «L’ombra e la luce». Loro intenzione è stata infatti quella di immettere il flusso generativo dei mondi di Velly all’interno di una grande metafora alchemica, e dunque di dividere l’esposizione di Palazzo Poli in tre sezioni: «Nigredo», «Albedo», «Rubedo», ovvero i tre stadi (dall’ombra infinita alla luce assoluta) del processo psicologico di elevazione spirituale prospettato dalla tradizione degli alchimisti.
L’ultima sezione comprende i dipinti realizzati dal francese, soprattutto nell’ultima stagione della sua vita, interrotta da un incidente che lo portò ad annegare nel lago di Bracciano. Il mondo dell’arte internazionale rimase molto scosso da questa fine tragica di un artista che aveva da giovanissimo scelto di vivere in Italia, proprio per le sue bellezze paesaggistiche. Velly era infatti giunto a Roma nel 1966 come vincitore del Grand Prix de Rome per l’incisione. Le sue opere realizzate nel triennio passato all’Accademia di Francia a Villa Medici suscitarono l’ammirazione dell’allora direttore Balthus. Nel Settanta, ventiquattrenne, Velly decide di rimanere «tra le ombre e le luci» dell’Italia.
Di questa avventura parlano in catalogo, oltre ai curatori, Tiziana D’Acchille, Maria Antonella Fusco,Vittorio Sgarbi, Marco Di Capua, Pierre Higonnet, Gabriele Simongini, Catherine Velly e Vinicio Patrizi.
La mostra è promossa dall’Accademia di Belle Arti di Roma e dall’Istituto Centrale per la Grafica.

Jean-Pierre Velly, «Pipistrello»

Jean-Pierre Velly, «Pirouette», 1983, matita, inchiostro e acquerello. Coll. Sette Daniele

Jean-Pierre Velly, Autoritratto, 1988 olio su tela su tavola, collezione Barilla
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