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Federico Castelli Gattinara
Leggi i suoi articoliCon il titolo «Where to start from», il MaXXI presenta una retrospettiva di Maurizio Nannucci (Firenze, 1939), curata da Bartolomeo Pietromarchi e aperta dal 25 giugno al 18 ottobre. La mostra accosta una trentina di opere, da quelle storiche ai lavori più recenti e inediti, con un catalogo in due volumi edito da Mousse. Un’installazione è realizzata dall’artista sulla facciata del museo ed entrerà nelle sue collezioni grazie agli Amici del MaXXI. Parte integrante del percorso è una selezione di un centinaio tra multipli, libri e dischi d’artista, foto, riviste ed ephemera.
Quando e come è nata questa mostra?
Negli ultimi anni ho esposto molto più spesso in musei e gallerie europee che in Italia. Quando Hou Hanru ha pensato a un’esposizione di un artista italiano in concomitanza con l’Expo di Milano, la scelta è ricaduta su di me.
Che cosa si vede in mostra e quali sono le opere cardine?
Con Bartolomeo Pietromarchi ho scelto lavori rappresentativi dei vari aspetti della mia ricerca, dalla metà degli anni Sessanta in poi: dai «Dattilogrammi» del 1964-65 alle prime realizzazioni al neon quali «Alfabetofonetico» del ’67, «Colors» e «The missing poem is the poem» del ’69. Espongo anche opere fotografiche come «Giardini Botanici», iniziata nel ’67 e «Scrivere sull’acqua» del ’73. Per gli spazi del MaXXI ho progettato grandi installazioni tra cui alcune in neon, come «There is an other way...» e «Sample Sounds», a carattere sonoro e interattivo.
La mostra segue un percorso tematico, cronologico o altro?
Ho sempre guardato al mio lavoro come a un flusso continuo, orizzontale e aperto, un work in progress a cui ho difficoltà a rapportarmi retrospettivamente. Così ho pensato di realizzare una mostra policentrica, fruibile in maniera trasversale. Ogni opera è pars pro toto, ma è anche in stretto collegamento con le altre. Una sorta di continuum.
In che cosa consiste il lavoro concepito appositamente per il MaXXI?
Cerco sempre un confronto, non necessariamente un dialogo, tra le diverse componenti dei miei lavori e lo spazio destinato ad accoglierli. Intervengo sul contesto per plasmare l’opera in funzione dello spazio e lo spazio in funzione dell’opera. Soprattutto voglio fare reagire e interagire i contenuti dell’una con i caratteri specifici e gli elementi dell’altro. Intendo questo per «site specific».
Come si è trovato a lavorare in questo museo?
Devo confessare che il primo impatto con la continuità di un unico ambiente, con la prospettiva decostruttivista e vertiginosa che caratterizza questi spazi, è stato molto controverso. Ma proprio questo mi ha stimolato alcune riflessioni. I miei lavori sono pensati per confrontarsi col contesto, per stabilire una relazione, uno scambio dialettico con l’architettura, mantenendo sempre una loro specificità e una loro alterità rispetto all’ambiente.
C’è un legame tra la mostra e la sua opera nel vicino Auditorium?
Come per «Polifonia», la grande installazione luminosa che ho realizzato nel 2002 per Renzo Piano, ho pensato la mostra come un dialogo, attraverso il mio lavoro, tra diverse discipline e dimensioni. Un percorso che indaghi il rapporto tra architettura, musica, arte e linguaggio. In questo senso, tra l’opera dell’Auditorium e quelle del MaXXI, c’è oltre a una vicinanza fisica, anche un nesso, una continuità.
Che significato ha l’eterogeneità dei mezzi linguistici che lei usa?
Il mezzo linguistico per me è significato. Parlerei in primo luogo di possibilità. Esplorare i rapporti tra categorie e discipline diverse, confrontare e coniugare fra loro strumenti linguistici differenti, scandagliandone tanto le affinità quanto le differenze, permette di progredire nella conoscenza dei processi culturali ad essi sottesi, e di farlo in profondità. Permette di aprirsi a nuove prospettive, e dunque a nuovi orizzonti di significato, a nuove possibilità.
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