Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliIl Cinerario Paolozzi è il «capolavoro nascosto» conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Chiusi. Si tratta del vaso funerario in terracotta che il collezionista e scavatore Giovanni Paolozzi rinvenne nel 1873 all’interno di una tomba a ziro nella necropoli di Dolciano. Lo conservò presso di sé sino al 1907 quando passò per legato testamentario al museo della sua città natale, di cui aveva contribuito a portare alla luce il passato etrusco.
Fu uno scavatore fortunato, come ricorda un suo cugino, il conte Mauro Faina, che, a sua volta, aveva iniziato a collezionare antichità nel 1864. In alcuni appunti che intitolò Memorie, ove si è scavato, rammenta con ironia: «scavi felicemente cominciati da Paolozzi ed infelicemente proseguiti dallo scrivente».
La passione per il collezionismo archeologico era stata trasmessa a lui dagli antenati: già alla fine del Seicento, a Chiusi, i Paolozzi avevano iniziato a raccogliere antichità: alcune urne cinerarie con iscrizioni, che menzionavano la famiglia etrusca dei marcni, sono ricordate presso di loro.
Nel 1733 la raccolta ampliata notevolmente venne visitata da Anton Francesco Gori, uno dei protagonisti della stagione settecentesca di studi definita Etruscheria, durante la quale ogni primato era attribuito agli Etruschi. Anton Francesco Gori ricorda Ristoro Paolozzi come l’unico personaggio che dimostrava interesse per la conservazione in loco dei reperti che ritornavano alla luce a Chiusi.
La raccolta andò arricchendosi ulteriormente nei decenni successivi e nel 1819 venne visitata dal granduca Ferdinando III e dall’arciduca d’Ungheria. Alcuni anni dopo ebbe modo di osservarla e descriverla Wilhelm Dorow che era contemporaneamente un diplomatico al servizio di Federico Guglielmo III di Prussia, un archeologo e un collezionista di antichità. La definì: «véritable trésor national pour sa patrie».
La collezione venne ceduta da Giovanni Paolozzi al Comune di Chiusi nel settembre del 1873 per la cifra di 7.400 lire dopo un teso dibattito all’interno del Consiglio comunale anche in considerazione del ruolo di sindaco che svolgeva lo stesso Paolozzi. Il quale accettò di abbassare la valutazione iniziale di un perito che l’aveva valutata 8.795 lire e accettare un pagamento in dodici rate annuali. Non si voleva far perdere un’altra importante collezione alla città, dato che pochi anni prima, nel 1865, quella Casuccini era stata acquistata per il Museo di Palermo dove si trova tuttora.
Paolozzi trattenne, comunque, presso di sé alcune antichità, alle quali era particolarmente legato, compreso il Cinerario che oggi porta il suo nome e la cui proprietà è divenuta pubblica nel 1907, come si è ricordato. È interessante segnalare che Luigi Adriano Milani, direttore del Museo Archeologico di Firenze, provò ad acquistarlo, insieme ad altri reperti dello stesso corredo funerario restati nella disponibilità del collezionista, come attesta una lettera, inviata il primo febbraio 1899 a un ormai quasi settantenne Giovanni Paolozzi, era nato infatti nel 1831: «questo museo potrebbe pagare per esse la somma complessiva di Lire 1000». La risposta fu negativa: il Cinerario non doveva lasciare Chiusi.
Il vaso funerario è stato oggetto di un profondo intervento di restauro nel 2000 diretto da Mario Iozzo ed eseguito da Giuseppe Venturini. Esso ha consentito di recuperarne l’aspetto originale eliminando le integrazioni e le incomprensioni degli interventi precedenti, di conoscere l’apparato ornamentale che lo caratterizzava: una decorazione floreale dipinta in nero sul corpo del vaso e oggi appena visibile, decorazioni impresse nella quadrettatura della veste della figura principale e la presenza di laminette scintillanti all’interno dei becchi spalancati dei grifoni.
Il Cinerario è composto da un vaso, destinato a contenere le ceneri della defunta, sensibilmente rastremato verso il basso e caratterizzato da una spalla larga e carenata. Proprio sulla spalla e sul collo sono applicate quattro singolari protomi di grifone. Alle protomi si alternano quattro figure femminili piangenti di piccole dimensioni, che sono riproposte sul coperchio.
Quest’ultimo accoglie una figura femminile a dimensione maggiore, con una raffinata veste quadrettata e che porta la mano sinistra al seno, mentre la destra, lacunosa, era protesa in avanti. La statuetta raffigura simbolicamente la defunta. Il Cinerario ha un’altezza complessiva di 89 cm ed è stato lavorato al tornio e levigato, mentre gli elementi plastici sono stati eseguiti a mano libera, con ritocchi a stecca e presentano fori sfiatatoi per ridurre i possibili inconvenienti nella cottura. Resta da dire che il vaso nel suo insieme accenna a scene del rituale funerario etrusco ed è databile negli anni 630-600 a.C.
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