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Sono uno storico stoico

In una settimana ha scritto una storia dei colori poi tradotta in venti lingue. «Dagli archistar agli architettini la parola d’ordine è: lasciare un segno. Una (s)tortura. Viva Venezia, ma è sempre più impossibile abitarci»

Enrico Tantucci

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Si muove con l’elegante leggerezza della sua erudizione tra la storia dell’arte, l’architettura e la filosofia, facendo della trasversalità uno dei motori della sua ricerca, legata in particolare alle tecniche della visione e della rappresentazione come colori, immagini e design. Manlio Brusatin (Castelfranco Veneto, 1943) ha insegnato nelle Università di Venezia, Milano e Sassari, nella Facoltà di Design del Politecnico di Milano e in quella di Architettura di Alghero. Ma anche a Ca’ Foscari, chiamato da Giuseppe Mazzariol, e prima ancora allo Iuav con Carlo Scarpa.
Ha collaborato a varie Biennali di Venezia per le sezioni Arte, Architettura e Teatro.
Inoltre ha fatto parte della direzione di «Gola», primo periodico sul cibo e sul gusto, a conferma della vastità dei suoi interessi. I suoi libri sul colore (tra gli altri, Storia dei colori edito nel 1999 da Einaudi, giunto a più di 20 edizioni e ristampe) hanno avuto un riscontro internazionale e sono stati tradotti, oltre che nelle maggiori lingue europee, in coreano e in arabo. Ma si è occupato anche di restauro di edifici monumentali, come la Rocca di Asolo, le mura e la Torre Giorgione di Castelfranco.
La sua bibliografia è molto ampia e copre campi di interesse trasversali e almeno apparentemente differenti. La trilogia della Storia dei colori, con la Storia delle linee e la Storia delle immagini (Einaudi, 2002). Ma anche il viaggio intorno alla rappresentazione dell’immagine stessa, inflazionata quanto controversa, di Leonardo, alla sua diffusione nel tempo, con Il cappello di Leonardo (Marsilio, 2019). O ancora testi come Arte della meraviglia (Einaudi, 1986) e Arte dell’oblio (Einaudi, 2000), sulla seduzione delle arti visive legata alle strategie con cui esse sottraggono alla presenza ciò che si vede, oltre che dalla loro capacità di destare stupore. O, ancora, volumi strettamente legati al contesto architettonico come quelli dedicati al Teatro La Fenice o alla Venezia nel Settecento.

Qual è il filo rosso che la spinge a indagare contesti anche molto diversi?

Temi come meraviglia, oblio, sobrietà non sono di per sé legati, cioè non è una salita o discesa diretta, ma un camminare in un sentiero a tornanti, e guardare ora in basso ora in alto senza preoccupazione di arrivare in vetta. E intanto raccogliere erbe e pietre, guardare in giro, certamente. Nel mio lavoro di sto(r)ico, sottolineo la parentesi, nella suggestione di un maestro come Foucault, è necessario conoscere ciò che l’arte può e ciò che non può. Mi sono permesso di dire e di scrivere nel mio primo lavoro Venezia nel Settecento (Einaudi, 1980) a un’autorità accademica, citando involontariamente Hegel, che chi non sa guardare sotto i propri piedi non è un grande storico. Da qui è partito un anatema che mi è costato il ritorno al villaggio, e tutto sommato fu una fortuna andare a cercare la cultura materiale, si diceva, di un popolo che allora beveva solo vino bianco o rosso, ma che doveva ancora combinare il pranzo con la cena... È stata una scelta fortunata stare nella direzione di «Gola», fondata da Gianni Sassi, Antonio Porta e Umberto Eco, all’inizio degli anni Ottanta, gli «anni da bere». Mi servì per capire che i colori stanno con i sapori e gli odori, e che è la provincia variegata dei dialetti a rendere questo Paese meno provinciale, più autentico.

La fortuna della «Storia dei colori» resta un caso editoriale a sé. Un long seller legato a un tema che potrebbe apparire di nicchia. Come se lo spiega? Qual è qui il denominatore comune che spinge culture e popoli diversi a interessarsene?

Si dice che i libri «hanno il loro destino» e quindi sono fatti volare e scappano dal loro autore che non è affatto il loro padrone. La Storia dei colori è nata per caso. L’editore Giulio Einaudi, con il suo penetrante sguardo azzurro, nel bianco candido della sua aureola, mi dice con la sua voce miagolata: «Fai un libretto di cento pagine sui colori, senza nessuna illustrazione, mi raccomando». In una settimana scrissi e consegnai il testo. Il tema del colore, agli inizi degli anni Ottanta, poteva essere un piacevole divertimento sulla cravatta da mettere con la camicia e sull’abbinamento di gonna e foulard... In Italia la televisione a colori era appena apparsa e lo schieramento a favore e contro il colore fu un capitolo, interessante quanto ridicolo, del dibattito parlamentare.

Poi il libro è volato e continua a volare dopo quarant’anni anche con le ultime traduzioni in lingua basca e in arabo. Che cos’è il colore?

È un linguaggio immediato e percepito da tutti, allo stesso tempo un discorso di qualità, una sfumatura e cento sfumature. Mi è piaciuto vedere che questo libretto stava nelle librerie grandi e piccole di molti artisti, architetti, designer, grafici e maestri di scuola... Moltissimo al femminile. E poi il colore sta non solo in ciò che si vede ma in ciò che si sente e si ricorda. Ma attenzione: autenticità o seduzione? Verità o inganno? Apparizione o mimetismo? Il mondo del web ha rilanciato ed esasperato la fortuna dei colori: i colori lucenti e retroilluminati dello smartphone (additivi) si confrontano a malapena con i colori del tempo e dell’oblio (sottrattivi), quelli che cerchiamo e non troviamo mai più. Ombra e luce, da Leonardo, mettono insieme qualità e materia dei colori, nel senso che vedere è anche fare. E poi, sono nato nella città di Giorgione...

Che cos’è l’architettura praticata per Manlio Brusatin? In che modo l’architettura convive con la sua ricerca teorica?

L’architetto deve saper stare al suo posto, cioè testimoniare la sua presenza in un luogo conoscendo gli aspetti storici e culturali delle arti, che in Italia sono dappertutto. Dagli archistar agli architettini, la parola d’ordine è quella di lasciare un segno. Questo segno è talvolta una (s)tortura per spazi e persone che devono abitarci, anche solo a guardarlo. Perché, dal primo giorno, una tecnologia costruttiva, non collaudata sul piano della durata, diventa un rottame e non una rovina parlante. L’abbandono poi di ogni tipo di manutenzione è decretato: perché non ne vale la pena. Saper invece provvedere a quelle opere è saper tenere in piedi l’architettura di un passato che ci sta davanti. E poi è necessario conoscere i mestieri e l’artigianalità diffusa che hanno costruito la qualità del paesaggio italiano, dettato dall’architettura. Bellezza? Una parola vuota se non c’è verità e qualità costruttiva. Oltre a edifici complessi come le mura di città venete, ho accettato committenze di piccoli o grandi magnati locali, sempre con l’intendimento del restauro e della manutenzione e del «come sono e perché devono stare» solo perché, devo confessarlo, si trovavano a un quarto d’ora a piedi da casa mia.

Che cosa ha rappresentato per la sua formazione di architetto l’esperienza accanto a Carlo Scarpa a Venezia, prima come studente e poi come collaboratore allo Iuav? E quella con Giuseppe Mazzariol a Ca’ Foscari per la sua formazione di storico dell’arte?

Cercare un maestro è come cercare un padre, che ho avuto per poco tempo. Carlo Scarpa per l’architettura, mi sono laureato con lui, e Giuseppe Mazzariol per le arti sono stati per me i due padri che ho cercato, anch’essi perduti molto presto. Ma poi i maestri restano maestri e gli allievi... allievi. 
Nella mia storia di professore che si è spostato da Venezia a Milano e in Sardegna, è una bella sorpresa trovare persone che mi dicono: «Si ricorda, sono stato un suo allievo?». Allora anch’io mi sento un piccolo maestro.

È di prossima uscita un nuovo volume, «Un castello a Cortina». Di che cosa si tratta?

Nella reclusione degli anni della peste moderna ho messo a punto alcune annotazioni. L’idea era di legare insieme la storia dei personaggi accanto alle case che abitano, od odiano, o cercano di trovare. L’occasione è nata dalle notizie di un castello costruito a Cortina da due donne, Anna ed Emily, alla fine del secolo: distrutto a cannonate il primo giorno di guerra, perché sulla linea del fronte tra Italia e Austria. Costruire un castello, anche per abbandonarne un altro, diventato un incubo: il Castello di Charleville Forest in Irlanda abitato dai fantasmi. Il racconto si sviluppa nella figura del figlio di Emily, Charles, capo della prima spedizione sull’Everest (1921). La competizione tra lo spirito dell’esploratore e dello scalatore serviranno a mandare a monte l’impresa. Ma la fama di Charles è di aver ucciso una tigre che aveva mangiato 21 yogi e di aver scoperto le orme «dell’abominevole uomo delle nevi». In realtà si trattava di un errore di comunicazione alla stampa che ha dato anima e corpo allo Yeti, e ha decretato in patria il suo futuro politico...

Lei ha avuto con Venezia un rapporto intenso e tormentato, anche a livello universitario. Che cosa pensa di questa città e dell’eterno dibattito sulla sua salvezza fisica e sociale e sulla preservazione della sua integrità fisica e culturale?

Su Venezia è difficile o troppo semplice aver idee perché è sempre più impossibile abitarci. Del resto, credo, si possono avere le opinioni di Goethe, quelle di fine Settecento, quando la Repubblica andava in frantumi «come uno specchio rotto»: «Venezia... anch’essa finirà per appartenere al tempo come tutto ciò che appartiene alla vita».

Enrico Tantucci, 01 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

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