Dario del Bufalo
Leggi i suoi articoliIl 4 ottobre scorso un turista americano ha tirato giù dalle mensole della Galleria Chiaramonti dei Musei Vaticani due busti romani in marmo, frantumandoli a terra in più pezzi. Già si comincia a dichiarare che è stato il gesto di un folle psicolabile che voleva solo incontrare papa Francesco. Troppo spesso però la distruzione di un’opera d’arte è stata nei secoli usata come strumento di ricatto, di protesta o come gesto politico e sembra che sempre più stia assumendo un carattere «mainstream» internazionale.
Dico «secoli», perché già durante l’Impero romano il famoso «arbiter elegantiarum» Tito Petronio, poco prima di morire, distrusse gettandolo a terra, un meraviglioso e costosissimo mestolo in agata murrina, per non farlo cadere nelle mani dell’odiato Nerone. Tante altre distruzioni d’arte sono avvenute durante il Medioevo e il Rinascimento.
Più tardi, nel 1845, un gentile signore inglese un po’ alticcio distrusse il famoso Vaso cammeo Portland del British Museum, per ragioni personali. Ancora, alla National Gallery di Londra, nel 1914 Mary Richardson (protofemminista, poi detta «la squartatrice»), inferì sei orribili squarci sulla tela della Venere di Velázquez perché troppo nuda e offensiva della donna.
Nel 1925, un guardiano di nome Salvatore Aita, appena assunto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, per ragioni sindacali, distrusse la preziosissima agata-cammeo Tazza Farnese, spaccandola in pezzi con un ombrello (Murrina Vasa 2016). Come non citare il geologo australiano László Tóth che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo in San Pietro, gridando «Io sono Cristo!».
Lo scorso mese due attiviste ecologiste londinesi di 20 anni hanno lanciato una zuppa di pomodoro sui «Girasoli» di Van Gogh nella National Gallery di Londra, gridando «Cos’è più importante, l’arte o la vita?». A me sembrano più due Gianburrasca con la «Pappa al Pomodoro» in cerca di notorietà (una ricerca molto pericolosa per l’arte!), che usano la zuppa Heinz invece di quella Campbell’s di Warhol, almeno potevano fare una citazione colta nel loro disgustoso e condannabile «happening artistico».
Tutti questi episodi sono un orrore per l’Arte e non vorrei che fra i più giovani questo comportamento fosse emulato per sentirsi vivi o parte di una comunità che non dà loro più nessuna identità ed ecco che «se sfregio, esisto». Vedrete che in futuro le istituzioni internazionali dei musei prenderanno delle misure di stretta sicurezza del tipo «11 settembre» oppure come il «Green Pass» per i visitatori dei musei per i quali si stabilisca, non già una sanità virale del pubblico, ma una specie di certificato di «sana e robusta costituzione mentale».
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