Simone Facchinetti
Leggi i suoi articoliL’appuntamento è fissato alle 19. Arrivo agli Uffizi con un leggero anticipo e mi fanno accomodare nella sala d’attesa, dove inizio a contare i minuti. Mi guardo intorno e vedo quattro orologi, due da tavolo, uno pensile e un pendolo a colonna. Uno segna le 5, l’altro le 8, il terzo le 3, infine le 12. Nessuno è funzionante, sono fermi da anni. Osservo meglio e vedo che su una scrivania è collocata una sveglia comune, a uso privato, questa volta in orario: segna le 19, il momento in cui si affaccia Eike Schmidt, il direttore. Da buon tedesco spacca il secondo. Mi chiede di pazientare, aspetta un gruppo di Carabinieri in visita alla nuova Sala di Raffaello, la stessa per cui sono qui anch’io. Il tempo passa e noi ci avviamo verso la sala 41. Solo più tardi sarebbe arrivata la truppa degli ospiti. Ascolto la spiegazione di Schmidt rivolta ai Carabinieri: chiara, semplice, persuasiva, fatta per un pubblico di non addetti ai lavori. In fondo un museo non serve agli specialisti, quelli al museo ci vanno già. Deve attirare nuovo pubblico, compresi i Carabinieri.
È questo uno degli obiettivi perseguiti da Schmidt, giunto oltre la metà del suo mandato, che scadrà alla fine del 2019. Gli chiedo di mostrarmi le sale riallestite dopo il suo arrivo. Telefona alla guardiania per far togliere gli allarmi alle sale di Botticelli, di Caravaggio e alla collezione Contini Bonacossi. Quest’ultima, donata dagli eredi agli Uffizi, doveva essere inaugurata ai tempi di Giuseppe Saragat, nel 1969. Schmidt è perfettamente consapevole che ogni spostamento, ogni piccolo cambiamento nell’assetto museografico, determina una diversa percezione delle opere d’arte nel loro insieme. Lui stesso sta riflettendo su come migliorare quello che ha fatto finora. Un museo è un organismo vivo, delicatissimo.
È come l’ingranaggio di un orologio, basta mettere fuori asse una ruota dentata e smette di funzionare, non segna più le ore. La sfida è molto difficile, almeno per una persona comune. È un’impresa tenere insieme diversi aspetti del problema, che vanno dalla conservazione delle opere fino alla loro migliore fruizione. Il punto è che gli Uffizi sono visitati ogni anno da oltre 2 milioni di persone. Come garantire a tutti le stesse informazioni di base, ma anche la stessa probabilità di avere un’«illuminazione» o di provare un’emozione di fronte a un’opera d’arte?
La Sala di Raffaello ha al centro, in posizione d’onore, il Tondo Doni di Michelangelo. A fianco ci sono i due ritratti Doni di Raffaello, i committenti del tondo. Sulla parete sinistra sono appaiati i coniugi Guidobaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga, sempre di Raffaello. Di fronte c’è la «Madonna del cardellino». Basterebbe questo per venire assaliti dalla sindrome di Stendhal. Schmidt è particolarmente orgoglioso di come è riuscito l’allestimento.
Giriamo intorno ai ritratti Doni e si accorge che la luce abbaglia l’osservatore. «Qui dobbiamo intervenire. Sono solo dettagli ma vanno sistemati al più presto», afferma. L’avrei capito solo più tardi che la sala 41 è una sorta di «prova generale». Qui sono state messe a punto una serie di soluzioni allestitive che hanno avuto una prima rappresentazione nella Sala di Botticelli, dove siamo diretti ora. La «Primavera» sembra il monolite di «2001: Odissea nello spazio», attira a sé qualsiasi cosa, come un buco nero. Dico a Schmidt che Jean-Paul Richter, nel necrologio di Giovanni Morelli, ricordava che è proprio davanti ai dipinti di Botticelli agli Uffizi che il medico bergamasco avrebbe messo a punto il suo rivoluzionario «metodo sperimentale». Sembra interessato. Poi mi spiega che i visitatori di fronte a questa opera si ordinano «naturalmente» a semicerchio, come se stessero intorno a un fuoco.
Stando a una certa distanza dalla «Primavera» si arriva a incrociare con lo sguardo la «Nascita di Venere», l’altra icona botticelliana. I due grandi dipinti sono incassati in una struttura («In caso di terremoto sono maggiormente protetti, è come se fossero sotto una porta», dice Schmidt), protetta da un vetro particolarmente trasparente, quasi invisibile all’occhio. Questo accorgimento permette ai visitatori di avvicinarsi alle opere, senza poterle toccare o danneggiare: non solo con le mani, ma anche con il respiro. Infatti in questa sorta di acquario i dipinti vivono in un microclima stabile che li preserva, speriamo per l’eternità. Schmidt mi racconta che tramite le telecamere hanno osservato il comportamento dei flussi dei visitatori.
Ora rimangono più tempo nelle sale, non scivolano più via come pesci nell’acqua. In fondo i numeri sono molto importanti, ma come si fa a misurare il grado di qualità offerto da una visita? «È il tempo il fattore determinante. Più tempo il visitatore passa nel museo, maggiore sarà stato il suo gradimento», afferma Schmidt. Lasciamo Botticelli e ci dirigiamo nelle sale di Caravaggio. Prima di arrivarci attraversiamo la pittura veneziana del Cinquecento, la prossima area che Schmidt ha intenzione di riallestire.
A un certo punto ci troviamo in una sala buia. Ci fermiamo, in attesa che qualcuno accenda le luci. I quadri alle pareti si percepiscono appena. Io penso: deve essere eccitante riuscire a fare un’attribuzione al buio. Butto l’occhio su una zona di pittura più chiara, non capisco bene che cosa sia raffigurato ma d’istinto mi viene il nome di Annibale Carracci. È la coscia di una figura femminile. Si accendono le luci: è la «Venere» di Annibale, sensuale e bellissima, vicina ai due cani di Jacopo Bassano. Mi dico bravo da solo. Qui mi spiega Schmidt che le pareti sono state dipinte di rosso perché era il colore in assoluto più apprezzato all’interno delle quadrerie del passato. Non è un rosso steso in modo compatto, uniforme; è ottenuto per sovrapposizioni di diversi colori, quindi restituisce l’idea di un tono stratificato, mosso, vibrante.
Ora ci addentriamo nelle sale caravaggesche. La «Medusa» vista ad altezza d’uomo è impressionante, incute un senso di terrore. Girandole intorno ci si accorge che in origine svolgeva la funzione di scudo da parata, tanto che i Medici la conservavano nell’armeria. Per questo motivo Schmidt ha collocato lì vicino uno scudo metallico, assieme alla testa della Gorgone dipinta da Otto Marseus. Anche il celebre «Bacco» di Caravaggio è circondato da una schiera di nature morte (dall’Empoli a Cesare Dandini) per sottolineare il fatto che il pittore lombardo ha di fatto rifondato il genere. Schmidt mi confessa che vorrebbe sfoltire l’accrochage, eliminando qualche quadro. Uno degli aspetti che più mi colpiscono è questa sua continua tensione al miglioramento, ammettendo che ogni intervento museografico può essere corretto in corso d’opera.
Infine procediamo verso le nuove sale della Collezione Contini Bonacossi. Le robbiane sono appese in alto, a parete. I dipinti sono esposti con le loro cornici da collezione (dotate di fondi di velluto), una stanza è riservata ai mobili (assieme a una scultura di Alceo Dossena): una sorta di «period room». Sarà perché i soffitti sono più bassi, oppure per l’articolazione del percorso, non so, fatto sta che questa mi sembra l’area meglio riuscita, ma è solo un parere personale.
Sono le 21 passate. È ora di uscire. Schmidt ringrazia gentilmente il custode che ci ha seguiti per tutto il tempo. Ci dirigiamo in una trattoria. Risponde alle mie domande per le due ore successive. È sveglio dalle 5 e l’indomani deve prendere un treno per Padova alla stessa ora. La carriera ha il suo prezzo da pagare. Quando alla fine del mandato lascerà gli Uffizi per la direzione del Kunsthistorisches Museum di Vienna, per Schmidt si aprirà un nuovo capitolo che prevede maggiore impegno sul fronte della ricerca e meno pensieri su quello della riorganizzazione delle collezioni. Voci romane dicono che tutti i direttori dei musei nazionali, alla loro naturale scadenza, saranno riconfermati per altri quattro anni. Chissà se è vero.
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