Raffaella Venturi
Leggi i suoi articoliNon si può dire di conoscere la Sardegna se non si conosce una delle sue più affascinanti parate iconografiche: la successione di retabli raccolti prevalentemente nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari, tesori di grande valore artistico e culturale presenti anche sul territorio regionale all’interno di antiche chiese in piccoli paesi.
I retabli informano sulla storia dell’isola, soggetta alla dominazione spagnola per quattro secoli dal 1326, quando i Catalano-Aragonesi,dopo un assedio di tre anni contro i Pisani, costituirono il Regno di Sardegna. Inizia da lì l’importazione di modelli iconografici della penisola iberica, dove il retablo (dal latino retro tabula altaris, perché posto dietro l’altare) rappresentava una pregnante narrazione pittorica a uso dell’evangelizzazione dei fedeli, ipnotizzati da questa grande pala d’altare, suddivisa in sezioni pittoriche corrispondenti a diverse «puntate» del soggetto trattato (bisogna tenere presente che il portato visuale era pressoché inesistente e appannaggio solo delle classi alte e del clero).
Dalla Catalogna arrivano in Sardegna diverse tipologie di retabli che via via soppiantano i modelli pittorici toscani importati da Pisa. Un’ibridazione che durerà fino a inizio XVII secolo: il denominatore comune è il fondo oro, che conferisce al dipinto un’aura di ieratica sacralità e di preziosità. Lo sviluppo architettonico, bidimensionale, è quello di un trittico o polittico in legno, che poggia su una base-predella a più scomparti, cinque o sette, anche questi dipinti con scene di santi o della vita del Cristo.
Le parti laterali e alte del polittico sono ulteriormente impreziosite da una cornice aggettante obliqua, cosiddetta «a polvaroli», che oltre a riportare altri soggetti pittorici, proteggeva dalla polvere. Questa perfetta macchina scenografica diventava, nella sua costruzione, un’opera totale, miscelando pittura, architettura e scultura, essendo spesso collocata al centro una nicchia, magari in oro zecchino, con una statua al suo interno. Le prime maestranze catalane documentate sull’isola sono Joan Mates, Juan Figuera, Rafael Tomas e Juan Barcelo.
Una visita alla Pinacoteca Nazionale, nell’amena Cittadella dei Musei di Cagliari, dà ragione dell’evoluzione stilistica che si sviluppa nell’arco di almeno due secoli: dal Maestro di Castelsardo, il Maestro di Oliena e Giovanni Muru, a una produzione locale con gli esponenti della Scuola stampacina dei Cavaro, Antioco Mainas e altri. È proprio nel quartiere storico di Stampace a Cagliari che fiorisce la bottega della famiglia Cavaro, con Pietro, cui è attribuito il frammento con Mater dolorosa del cosiddetto Retablo dei Sette dolori, conservato nel convento dei Frati minori di Santa Rosalia, nel quartiere Marina a Cagliari. Altri preziosi frammenti sono conservati nel Palazzo municipale, nella cattedrale di Cagliari e nel santuario della Madonna di Bonaria, dove si trova la tavola della Madonna del cardellino, attribuita a Michele Cavaro, figlio di Pietro.
Forte di visioni come il Retablo di San Bernardino, di Rafael Tomàs e Joan Figuera, e il Retablo della Porziuncola del Maestro di Castelsardo, e di tutti gli esemplari presenti alla Pinacoteca cagliaritana, l’occhio è pronto a incontrare la complessità narrativa e stilistica dei due più grandi e importanti esempi di questa produzione pittorica, a Villamar e Tuili.
A Villamar la strada principale divide in due un paese all’apparenza molto modesto; nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, collocato nel luogo originario, si conserva il retablo secondo per grandezza solo a quello di Giovanni Muru e aiutanti della chiesa palatina di Santa Maria del Regno ad Ardara. Nell’ampio respiro pittorico si riconosce la mano di Pietro Cavaro, che lo realizzò nel 1518, impegnandosi in una composizione grande più di 7,5 metri per 4 metri circa.
Noto come Retablo di Mara Arbarei, antico nome di Villamar, dimostra come «Cavaro avesse maturato le esperienze più importanti dell’ambiente barcellonese e assimilato presenze fondamentali della situazione artistica napoletana», come scrive Renata Serra nel fondamentale volume di Storia dell’Arte in Sardegna, riferito al periodo dal romanico alla fine del ’500 (Ilisso edizioni). In una nicchia centrale, ornata secondo lo stile delle cappelle gotico-catalane, si trova la statua in legno della Madonna del latte, col seno scoperto su cui poggia la mano del Bambino.
L’altro capolavoro indiscusso è conservato nella Chiesa di San Pietro a Tuili. Non è mai stato accertato il nome dell’autore (convenzionalmente citato come Maestro di Castelsardo, in quanto nell’omonimo paese del nord-est Sardegna sono conservate, nella cattedrale di Sant’Antonio abate, quattro tavole superstiti di un polittico ante 1492 attribuite al Maestro). È un unicum stilistico. Doveva essere certamente un erudito artista catalano della scuola barcellonese, con conoscenze anche dell’iconografia italiana del ’400, con particolare attenzione alle ricerche prospettiche e paesaggistiche. È proprio lo sfondamento prospettico, al posto del fondo oro, la cifra precipua di questo doppio trittico, poggiante su predella a cinque elementi col centrale tabernacolo avanzato.
Si notano la sintesi di stilemi italiani e fiamminghi, una pittura ricca di dettagli minuziosamente riportati: l’armatura di San Giorgio, la resa dei tessuti delle vesti dei personaggi rappresentati e i loro volti e i pavimenti a scacchiera policroma fanno percepire l’alta qualità di un pittore aggiornato e aperto a diversi linguaggi. La figura e l’opera del Maestro di Castelsardo è costante oggetto di approfondimenti grazie anche a sofisticate tecniche di indagine: sono previste nuove rivelazioni sul misterioso pittore tardo quattrocentesco.
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