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Il paradiso di Gauguin

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Prima di abbandonare Parigi e spingersi lontano, Paul Gauguin (Parigi, 1848-Hiva Oa, 1903), agente di Borsa, era stato sposato con la danese Mette Gad, madre dei suoi cinque figli. La crisi finanziaria del 1883 mise fine al suo impiego: Mette tornò a Copenaghen con i figli e lui partì senza troppi rimorsi prima per la selvatica Bretagna, poi, con brevi soggiorni a Parigi, per i suoi viaggi in luoghi remoti, da Tahiti fino alle sperdute Isole Marchesi, dove è sepolto.

Non stupisce quindi che il nucleo più folto delle opere esposte nella mostra «Gauguin. Racconti dal paradiso» (dal 28 ottobre al 21 febbraio) giunga al Mudec-Museo delle Culture dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, che grazie ai lasciti della moglie Mette e degli Jacobsen (i proprietari del birrificio Carlsberg, cui il museo è intitolato) possiede 47 opere di Gauguin.

Promossa dal Comune di Milano e da 24 Ore Cultura, e curata da Line Clause Pedersen e Flemming Friborg, rispettivamente curatrice e direttore del museo danese, la mostra inaugura la regolare attività espositiva del museo (cfr. p. 20).

Con la settantina di opere di Gauguin prestate da Copenaghen e da 12 altri musei e collezioni internazionali, nel percorso ci s’imbatte in manufatti e immagini dei luoghi in cui l’artista visse, oltre a esempi delle fonti visive a cui attinse, in quella sua ricerca del «primitivo» che dall’arte popolare bretone, passando per la cultura peruviana e Inca (la nonna materna Flora Tristán, scrittrice protofemminista, era peruviana d’origine), lo spinse fino alla Polinesia francese. Senza dimenticare altre fonti, estranee alla sua vicenda biografica ma presenti nel suo bagaglio visivo, come l’arte egizia, la cambogiana, la giavanese.

Egli stesso, oltre alla pittura e all’incisione, si dedicò alla scultura lignea e alla ceramica, tecniche «primarie» ben rappresentate in mostra. Sei le sezioni della rassegna: un autoritratto, ancora obbediente ai canoni dell’arte europea di fine Ottocento, introduce alla seconda sezione, che lo segue dal 1876 al ’92, evidenziando il suo affrancamento da quei canoni naturalistici attraverso i «cloison» (i contorni netti, da antica vetrata) e le campiture piatte di colori non solo privi di chiaroscuro ma innaturali, scelti per la loro valenza simbolica.

I viaggi in Bretagna (1886 e ’88), Danimarca (1884-85), Parigi e Arles, qui con Van Gogh (1888-89) sono ripercorsi nella terza sezione, mentre nella quarta torna il raffronto tra il «prima» e il «dopo» l’incontro con quelle culture «primitive», grazie all’accostamento tra «Veliero alla luce della luna» (1878) e «Arearea no varua ino/Il divertimento dello Spirito maligno» (1894).

Nella quinta sezione va in scena l’intreccio tra sogno e realtà, mentre in chiusura si pone l’accento sulla ricerca di Gauguin di un’arte vicina alla vita e alla natura.

Ada Masoero, 24 settembre 2015 | © Riproduzione riservata

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