Roberta Bosco
Leggi i suoi articoliDopo la presentazione del restauro di «Atalanta e Ippomene» di Guido Reni, una delle opere della collezione primigenia del Museo del Prado, è la volta del «San Sebastiano» (1617-19), uno dei dipinti più noti dell’artista bolognese, che realizzò diverse versioni del martirio del nerboruto centurione, condannato a morte per aver difeso la fede cristiana.
L’eliminazione dei ritocchi censori, probabilmente voluti nel ’700 da Elisabetta Farnese, moglie del re Filippo V, ha messo in luce non solo quella parte del corpo del santo che si cela sotto il cosiddetto «drappo della purezza», ma anche altri elementi originali occulti, come la mano che appare nell’ombra alla sinistra della composizione e la corda con cui sono legate all’albero le due mani del popolare santo a cui si attribuiva la miracolosa capacità di fermare le epidemie.
La pulizia ha ridefinito l’anatomia rialzata dalla luce lunare che sottolinea tutti i muscoli del corpo, facendo affiorare una figura di gran bellezza e perfezione. Il successo stilistico e iconografico dell’opera fu tale, che la sua grande influenza sulle successive generazioni di artisti continua ancora oggi. Inoltre, sebbene non ci siano prove concrete del coming out di Guido Reni, le cronache dell’epoca assicurano che «diventava di marmo» in presenza di modelle femminili e che non faceva mai entrare una donna nella casa che condivideva con la madre.
Sia come sia, l’ossessione del pittore per questo santo, di cui realizzò 8 versioni, contribuì a convertirlo in un’icona gay. L’opera ritrae Sebastiano all’inizio del tormento, nel momento in cui si affida a Dio, volgendo lo sguardo al cielo con un forte contrasto di luce tra la figura e il paesaggio del fondo, che accentua la drammaticità della scena. La scelta di questo momento cruciale permette a Reni di studiare il corpo umano nella tensione di una posizione forzata, recuperando la profondità della composizione e lo spazio tra i piani e quasi materializzando l’aria che avvolge la figura del santo.
Grazie al suo recente restauro anche «Atalanta e Ippomene» si può ammirare in tutta la luminosità e la forza della versione originale concepita dall’autore. La rimozione delle vernici ossidate e la rigenerazione delle zone alterate e opache ha eliminato l’aspetto caravaggesco che aveva acquisito nel corso degli anni per l’invecchiamento dei materiali. Durante l’intervento, durato nove mesi, sono state eliminate anche due bande di tela aggiunte, che alteravano la dimensione originale della composizione.
Entrambe le opere sono state restaurate da Almudena Sánchez, capo del dipartimento di Conservazione e Restauro del Museo de Prado, grazie al patrocinio della Fundación Iberdrola España e si potranno ammirare nella grande mostra su Guido Reni che il museo madrileno organizza dal 28 marzo al 9 luglio.

Radiografia del «San Sebastiano» (1617-19) di Guido Reni
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