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Galleristi in 40 ore

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Franco Fanelli

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Certo che fa piuttosto effetto, dopo avere intervistato Franz Paludetto, un vecchio pirata (lo scriviamo nel senso affettuoso del termine) che da mezzo secolo naviga tra le tempeste e le sabbie mobili del mercato dell’arte scoprendo o valorizzando in tempi non sospetti artisti come Ontani o Cattelan, o sostenendo tenacemente talenti geniali ma incontrollabili come Mondino o Boetti, tornare in redazione e trovare fra le mail una che annuncia che, per imparare il mestiere di gallerista, basta investire 900 euro per un corso intensivo di 40 ore.
Lo organizza il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, che ha già all’attivo un corso accelerato per diventare collezionisti d’arte contemporanea.

L’iniziativa, beninteso, ha i suoi pregi e, supponiamo, una sua utilità, considerato che tra i «professori» figurano Matthew Slotover, fondatore di Frieze, il gallerista Massimo Minini, il collezionista Maurizio Morra Greco e il curatore Adam Budak. Anche il programma non è niente male, e spazia dai problemi legati all’allestimento a questioni assicurative e legislative, dal rapporto con le case d’asta alla gestione economica. Eccellente l’idea di trattare argomenti legati agli uffici stampa; addirittura provvidenziale quella di spiegare come si scrive un comunicato stampa, considerata la prosa concettualmente astrusa e lessicalmente problematica (e soprattutto totalmente inutile ai fini della comunicazione) di certe veline compitate da qualche garzone di galleria con velleità di varia natura. Allo stesso modo, non sarebbe peregrina l’idea di dedicare mezz’oretta all’educazione civica (e professionale) con i media, anche quando la testata non si chiami «Art Forum» o «Parkett» e un’ora almeno all’importanza di un sito internet tempestivamente nutrito d’informazioni e immagini.

Certo i malpensanti giudicheranno sospetta l’assenza, nella scaletta degli interventi, di un paio d’ore dedicate a come pagare le tasse, e di sicuro sarebbe utile insistere, oltre che sul «public speaking», su un comportamento meno supponente o scostante con quella parte di pubblico che l’arte deve accontentarsi di guardarla senza poterla comprare, magari scegliendo ragazzi/e di galleria che non parlino in curatorialese. Chissà poi se si insegnerà agli aspiranti galleristi come non farsi giugulare dagli artisti che sottofatturano le vendite delle opere o ricattare dai collezionisti che alle fiere (e non solo) pretendono cene da gourmand e sconti inverecondi.
A proposito: ci sarà poi chi spiegherà che le fiere non sono una meta ma uno strumento? Sarà spesa qualche parola per dimostrare l’utilità (e anche la difficoltà) di una programmazione in cui non si navighi a vista? Qualcuno intratterrà gli allievi sul fatto che è vero che l’Iva al 22% e il redditometro spingono all’espatrio a Londra o a Pechino, ma che non si può rinunciare a priori al confronto con i governi di ogni colore per sensibilizzare chi di dovere sulle difficoltà del mercato in Italia? Certo, per farlo occorrerebbe proporsi come categoria compatta e credibile attraverso un’Associazione Nazionale compatta, combattiva e selettiva, visto che ormai è démodé parlare dell’istituzione di un albo professionale.
Temiamo però che 40 ore siano pochine per convincere i partecipanti che ci sono cose che non si possono insegnare: non soltanto come sopravvivere in un sistema governato tirannicamente da una decina di portaerei stile Gagosian, Hauser & Wirth & C., ma anche l’autonomia nelle scelte, il coraggio, la coerenza, la fantasia, il saper navigare fra le mode senza diventarne succubi (forse Minini spiegherà che anche la mania dei monocromi bianchi prima o poi finirà), il gusto, l’intuito e perché no la visionarietà.

Fare il mercante, tutto sommato, si può imparare; ancora più facile è giocare a fare il gallerista, trastullandosi per un po’ con i soldi del papà, del marito o di chissà chi e poi, finiti quelli o semplicemente per noia, chiudere bottega e magari buttarsi sul design che va tanto di moda. «Essere gallerista», come s’intitolano le 40 ore del Pecci, è un po’ più complicato.

Franco Fanelli, 20 novembre 2015 | © Riproduzione riservata

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