Federico Castelli Gattinara
Leggi i suoi articoliRoma. Le Scuderie del Quirinale (si spera non per l’ultima volta, dato che la concessione scade a fine settembre e dal Comune di Roma ancora tutto tace) ospitano da domani, venerdì 29 luglio, fino al 4 settembre una rassegna di «Capolavori della scultura buddhista giapponese», una delle più importanti iniziative d’arte proposte per celebrare il 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia.
La mostra, curata da Takeo Oku e illustrata da un catalogo MondoMostre, espone ventuno opere (in totale trentacinque pezzi) datate dal periodo Asuka (550-700), che vide l’introduzione del buddhismo nel Paese, al periodo Kamakura (1185-1333), segnato dal governo della dinastia di shogun del clan Minamoto.
Sono sculture preziose mai prima esposte in Italia, fragili quindi raramente trasportate fuori dal Giappone, quasi tutte in legno dipinto, pochissime in lacca secca pure dipinta e un unico bronzo, un Buddha Sakyamuni del VII secolo alto una sessantina di centimetri. Provengono da templi e santuari giapponesi, o da collezioni di grandi musei di quel Paese, sono tutte catalogate come «tesoro nazionale» o «importante proprietà culturale» e ci raccontano di un’arte molto raffinata, spirituale ma anche potentemente espressiva, importata dal continente, da Cina e Corea, nel VI secolo dopo Cristo e fiorita in Giappone con temi e stilemi sempre più indipendenti e originali.
La maggior parte delle sculture rappresenta figure destinate al culto, e in particolare Nyorai, colui che ha raggiunto l’illuminazione, Bosatsu, colui che cerca l’illuminazione o ha rinunciato a raggiungerla per dedicarsi alla salvezza degli uomini, Myōō, divinità del buddhismo esoterico, e Ten, divinità autoctone dell’India assimilate al buddhismo.
Gli scultori di queste statue, chiamati busshi, dal X secolo furono quasi esclusivamente monaci, divisi in varie scuole, e la lavorazione, essendo considerata un’attività di culto, inizialmente era sottoposta a molte regole che poi, quando la produzione si diffuse, si ridussero a rituali simbolici, tranne rare eccezioni.
Mentre le divinità scintoiste non venivano rappresentate, il buddhismo si diffuse in Giappone proprio tramite le sculture, le pitture e le calligrafie importate dal continente, finendo per miscelare elementi indiani, cinesi, coreani fino a unirsi sincreticamente con lo shintoismo autoctono. «La storia del genio giapponese è un lungo omaggio agli dei dell'Asia e a formule etiche che furono le sue educatrici e, al contempo, uno sforzo incessante per trattare in modo personale queste formule», scriveva lo storico dell’arte Henri Focillon agli inizi del Novecento.
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