Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoliIl fine settimana del 24 e 25 maggio scorso, in Cile, si è svolta una nuova edizione del «Día de los Patrimonios», Giorno dei Patrimoni: in tutto il Paese migliaia di iniziative gratuite, con oltre il 90 per cento dei municipi del territorio nazionale coinvolti e qualcosa come tre milioni e mezzo di ingressi staccati: una performance niente male per lo Stato più lungo del mondo, 4.300 chilometri di estensione da nord a sud, ma che conta meno di 20 milioni di abitanti in totale: si replicherà il prossimo novembre, con un week end tutto dedicato alle attività per l'infanzia.
C'è però un altro aspetto che colpisce, nel quotidiano: l'ingresso libero nella maggior parte delle istituzioni, tanto che il Museo Nacional de Bellas Artes ne ha fatto anche un hashtag che campeggia in uno stendardo sulla propria facciata: #gratis.
Una questione sociale, già che da queste parti vi sono referenze che non passano di moda, temi che ribollono sotto la pelle della storia recente; andando al sodo: l'arte, in Cile, è ancora un affare politico. E di politica «interna», si potrebbe aggiungere.
Nel gentile Paese alla fine del mondo, strettissimo tra le Ande e il Pacifico, la cui orografia ha giocato un ruolo fondamentale in un peculiare isolamento che ancora sembra percepirsi tra le strade larghe di Santiago, è ancora fresca la memoria di uno dei più terribili e sanguinari regimi militari (quello capitanato dal generale Pinochet, con il beneplacito degli Usa, dal 1973 al 1990), purtroppo rinverditasi solo pochi anni fa: nel 2019, una serie di proteste scatenate dall'aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico, iniziate nella Capitale, si sono trasformate in una mobilitazione più ampia contro le disuguaglianze sociali e il costo della vita (il Cile vive schiacciato dal sistema economico più neoliberista dell'America Latina, ovviamente a discapito della maggior parte della popolazione) con una conseguente repressione violenta da parte delle forze dell'ordine, a supporto di un governo che ha mantenuto in sospeso le rivendicazioni e le richieste per una maggiore giustizia sociale, per migliori servizi pubblici e anche per un cambiamento della Costituzione, che ancora risale all'epoca della dittatura.
Non stupisce, dunque, che in tempo di ritorni alle destre (anche qui, sì) dalle raccolte istituzionali ai progetti più attuali l'attenzione sia per un'arte «ineludibile», come dichiarava in una performance pubblica nel centro di Santiago, nell'ottobre 1980, l'artista Elías Adasme (1955). Conservata al Museo de Arte Contemporáneo-Mac, nell'ambito della mostra temporanea dedicata alle opere della collezione permanente, «Memoria Habitata», quel che resta dell'azione è un accorato testo con una serie di fotografie: «Dalla nostra smembrata e gerarchizzata geografia sudamericana diciamo che l’arte deve essere ineludibile. […] Parliamo dell’urgenza dell’arte come azione dinamica ed efficace per incidere sulla realtà. Come un atto di rivalutazione del paesaggio. […] Da qui l’azione dell’arte, l’intervento negli spazi comuni, l’inversione della scena, lo scontro con i segni collettivi: l’assalto alla realtà attraverso l’arte. Arriverà il giorno preciso in cui le nostre ubicazioni geografiche smetteranno di essere un semplice tracciato su una mappa, e quest’uomo sudamericano si riconoscerà in esse, al tempo stesso architetto e testimone nella costruzione di una nuova cultura, di un nuovo modo di operare nella vita. Per ora, abbiamo soltanto il sospetto che essere d’accordo…sia la peggiore delle illusioni».

Janet Toro. Intimidad radical. Desbordamientos y gestos. Foto: Lorena Ormeño (MNBA)
Nella seconda sede del Mac al Parco Quinta Normal, accanto al Museo della Memoria, fino al prossimo 7 settembre, è in scena un dialogo tra l'artista italiano Eugenio Tibaldi (1977) e il cileno Patrick Hamilton (1954), a cura di Eugenio Viola. Il titolo? «Quimeras. La Biennale del 1974 come laboratorio sociale del presente». Dedicata interamente al Cile, sotto il titolo di «Libertà per il Cile: per una cultura democratica e antifascista», la Biennale di Carlo Ripa di Meana fu la prima apertamente politica, e a partire da quell'esperienza radicale gli artisti si sono interrogati sulla possibilità attuale dell'arte di farsi, ancora, portavoce di questioni sociali scomode. Tibaldi qui opera con un approccio più poetico, in una grande installazione strutturata intorno al numero 7, dove in altrettanti oggetti sono collocate piante che simboleggiano virtù, a loro volta illuminate da 7 lampade dal design indiscutibilmente legato alla decada dei '70, associate (in una seconda sala) a sette acquerelli che riportano, cada uno, il titolo di una canzone incisa nel biennio 1973-74, ricreando una sorta di panorama dolce e familiare, dove le macchie di sangue restano nella filigrana della storia. Più secco e documentaristico il progetto di Hamilton, che da Venezia '74 riprende i ritratti dei protagonisti intellettuali di quell'edizione, tra cui lo stesso Ripa di Meana, Pier Paolo Pasolini, Ortensia Allende, Emilio Vedova e Sebastian Matta, solo per citarne alcuni, a cui si aggiungono una serie di documenti d'archivio, dalle carte del regime al celeberrimo disco «Viva Chile» degli Inti Illimani, fino alla grande installazione in rosso e nero che omaggia i supporti di legno che gli artisti e attivisti cileni a Venezia usarono per mettere in scena la prima Biennale diffusa con il progetto «La democrazia dipinta sui muri», in cui i triangoli rappresentano non solo la bandiera dei lavoratori, ma anche le vette acuminate delle Ande.
Al Museo Nacional de Bellas Artes, proprio accanto al Mac, fino a settembre c'è la possibilità di conoscere la traiettoria quarantennale di Janet Toro (1963), con l'antologica «Intimidad radical. Desbordamientos y gestos». Artista che ha fatto della performance il proprio campo di battaglia, assumendo un ruolo primario nel contemporaneo cileno, l'arte di Toro è una continua presa di posizione che, a ripetizione, le è valsa gli attacchi di gruppi politici conservatori: stavolta, alcuni, hanno anche marciato per il centro di Santiago chiedendo la chiusura dell'esposizione. Protagonista, già dal 1985, del collettivo Agrupación de Plásticos Jóvenes (Apj) che negli ultimi anni di regime utilizzavano la strada e lo spazio pubblico come palcoscenico di lotta creativa, a suon di murales, graffiti e manifesti, una delle ultime azioni più potenti di Janet Toro è stata «El cuerpo de la memoria», al Mac nel 2023, basata su una ricerca che aveva identificato 62 metodi di tortura praticati dal regime di Pinochet.
«Intimidad radical» è anche una dichiarazione del proprio Museo, il più istituzionale del Cile, nella promozione delle artiste, già che Toro fu anche tra le protagoniste di «Radical Women: Latin American Art 1960-1985», che nel biennio 2017-18 aveva fatto tappa all'Hammer di Los Angeles, al Brooklyn Museum di New York e alla Pinacoteca di San Paolo.
Di fatto, c'è nell'aria di Santiago una proposta femminista che non si ferma all'apparenza e che scava nei vari aspetti dell'identità: al Museo de Artes Visuales, MAVI, nel quartiere Lastarria, la mostra «Reveladas» di Ximena Zomosa (1966) ne è un esempio. Attraverso una serie di grandi installazioni, tra cui gli immensi vestiti vuoti e appesi ad enormi grucce, e lampadari dalle forme classiche composti di capelli, il pubblico è invitato a immergersi in una serie di «casi simbolici» che, dichiara la stessa artista, «Sono connessi al femminile occulto, alla presenza di una carica psichica che associamo, fin dall'inizio della nostra specie, agli elementi della natura. La mostra, così, si propone come un incrocio tra il femminile storicamente silenziato e la situazione di subordinazione rispetto al pensiero europeo nell'arte latina: un conflitto, insomma, tra la nostra natura, la nostra origine e il nostro destino».

Ximena Zomosa, vista della mostra Reveladas, al Museo di Arti Visuali MAVI UC, Santiago, 2025. Foto: Jorge Brantmayer. Courtesy MAVI UC
Tra le istituzioni che ospitano nella propria collezione permanente opere di Zamosa c'è anche il Centro Nacional de Arte Contemporáneo al Cerrillos, quartiere a sud del centro di Santiago, nella zona (in via di gentrificazione) del vecchio aeroporto della città. La collezione del Cerrillos, in realtà, è parte delle raccolte del Mincap, ovvero il Ministerio de las Culturas, las Artes y el Patrimonio, e conta con artisti come Iván Navarro (celebre per i suoi specchi infiniti che riportano messaggi neon), Viviana Silva, Claudia Gutiérrez, Josefina Fontecilla, Consuelo Walker...
Una raccolta che nasce come incentivo alla salvaguardia, alla conoscenza e alla diffusione dell'arte contemporanea nazionale, che ha avuto inizio con l'acquisizione di quasi 250 opere di artisti cileni di diverse discipline, che offre uno spaccato della produzione artistica del Paese latino degli ultimi 50 anni e che è completamente visibile online, per chi volesse farsi un'idea migliore, sul sito https://www.cultura.gob.cl/coleccionarte/.
La Galería Gabriela Mistral (a sua volta parte del MIincap), si trova invece a due passi dal Palazzo de La Moneda (sede della Presidenza della Repubblica cilena, Ndr) ed è stato luogo di incontro di intere generazioni di artisti fin dal 1990. Attualmente ospita il progetto site specific «Baño Publico» di Costanza Hermosilla, attraverso il quale l'artista immagina una città focalizzata sull'affetto, i corpi e la cura, mettendo in discussione il modo in cui il design urbano ha invisibilizzato una serie di esperienze fisiche e legate alla soggettività e agli approcci: i bagni diurni, le saune, gli spazi per il femminile: «Cosa vediamo e cosa non vediamo nelle nostre città, e come questa visibilità si relaziona con la marginalizzazione di certi corpi?», si chiede la curatrice Amarí Peliowski, focalizzando il pensiero verso l'ambiente collettivo, nell'immagine di una ipotetica metropoli in grado di accogliere la diversità delle esperienze e di includere le necessità.
A proposito di «corpi altri» è da segnalare anche la presenza di Zaida González Ríos (1977), artista transfemminista che incontriamo sia al Cerrillos sia al Centro Cultural La Moneda, all'interno della mostra-excursus dedicata al Premio di fotografia intitolata al giovanissimo Rodrigo Rojas de Negri (1967-1986), cittadino cileno esiliato in Canada che tornò a Santiago per tentare di documentare la situazione del proprio Paese: preso dai Carabineros, fu picchiato a sangue e dato alle fiamme, morendo quattro giorni dopo per le ustioni riportate.
Una storia atroce quella del regime, durata 17 anni e che ancora, nonostante la bellezza di Santiago e il suo aspetto profondamente cosmopolita, tormenta la città, quasi che la discrezione del popolo cileno sia dovuta, anche, al fardello pesante che questa terra ai confini del mondo ha dovuto sopportare dai tempi dei coloni.
González Ríos ricrea attraverso foto in bianco e nero successivamente colorate a mano, con la volontà di rivendicare un sapere artigianale ormai quasi scomparso, una estetica profondamente latinoamericana e domestica dove i corpi sono «non canonici» o dissidenti: in «Ni lágrimas ni culpa», con autoironia, l’alter ego dell’artista in veste di donna-gatto siede in un bar, piangendo le proprie lacrime e ripensando ai falsi idealismi, agli obbligli sociali, ai sensi di colpa e alle riconciliazioni.
[continua]