Pino Musi
Leggi i suoi articoliI lavori di artisti capaci di spostare su un piano di riflessione teorica sia contenuti molto solidi che una tesa e rigorosa estetica del medium, agiscono come scossa energetica. Questo accade guardando le diverse sfaccettature dell’opera di Rodrigo Valenzuela. Gran parte del suo lavoro richiama l’attenzione sull’affinità della fotografia con la distruzione. Il suo lavoro fotografico, video e installativo, è radicato in un contraddittorio fra documentario e fiction, ma anche in un’arte che ha messo il tema della «rovina», in senso lato, al centro della propria poetica, come nel caso di Francisco Goya, di Hubert Robert o, ancora, di Hannah Höch, fra gli altri. Ma la preoccupazione di Valenzuela, riferita al concetto di «distruzione», è soprattutto quella di creare un collegamento col decadimento dei valori sociopolitici, di architettare elementi decostruiti e scartati nati dalle alienazioni del capitalismo.
Le sue opere rimandano all’architettura brutalista o alle rovine precolombiane, risuonano di un potere particolarissimo che riesce a fondere il preistorico col tecnologico, l’occulto col marziale. Tutto è costruito attraverso una complessa serie di «traduzioni» da un mezzo a un altro, da una situazione all’altra; quello che avviene è una accurata progressione capace di tradurre, appunto, forme scultoree composite in sorprendenti immagini fotografiche. Sfidando il loro aspetto apparentemente inamovibile, le forme originarie sono costruite in modo precario, senza rinforzi, senza particolari raccordi che leghino le parti. La loro condizione è quella di esistere solo per la produzione finale in forma bidimensionale. C’è una tensione nel lavoro di Valenzuela, fra formalismo e improvvisazione, fra affermazione dell’ordine e totale rifiuto di ogni segnale di potere.
Nato a Santiago del Cile nel 1982 da una famiglia operaia, Rodrigo Valenzuela arriva negli Stati Uniti nel 2005, dove si paga gli studi attraverso lavori saltuari, con la speranza di diventare un filmmaker. Nel 2010, Rodrigo si laurea, nel 2012 ottiene un Mfa in fotografia e attualmente è artista e docente, con studio a Los Angeles, molto apprezzato negli States e a livello internazionale, anche se il suo lavoro è relativamente poco conosciuto qui da noi in Europa. In questi giorni è uscito il volume, edito da Veii, New Works for a Post-Worker’s World, dove Valenzuela sviluppa i contenuti portanti della sua pratica artistica: la realtà dell’immigrazione, del lavoro fisico, della privazione dei diritti politici.
Ciascun segmento di ricerca di questo artista si interfaccia, raggiungendo efficacia espressiva attraverso riferimenti che contribuiscono a formare un insieme stimolante e fortemente interrogante. Una serie di fotografie può essere letta autonomamente e su più livelli, ma se presentata come opera che racchiude in sé l’articolazione di un'installazione combinata con sculture, nuove letture possono sovrapporsi, trasmettendo una diversa carica emotiva e assumendo significati inattesi. Il lavoro di Valenzuela, attraverso la commistione di temi e media, funziona come un «Gesamtkunstwerk», termine usato per la prima volta nel 1827 dallo scrittore e filosofo tedesco K.F.E. Trahndorff. L’opera d’arte diviene totale, sintesi di una molteplicità di pensieri, idee, forme.
L’artista cileno crea messe in scena per la sua camera fotografica di grande formato, dapprima assemblando oggetti realizzati con materiali di scarto di fabbrica o detriti residuali dell’edilizia urbana, poi rigenerati in forma scultorea all'interno di un set. La scena è popolata da congegni meccanici, da chiodi e viti, da lame da taglio, da travi di legno dissestate. Questi agglomerati di materiali, che evocano gli apparati dell’era delle macchine nella prima metà del secolo scorso, sono associati ad una smania di potenza imperialista, ad una frenetica modernizzazione senza ostacoli. La macchina si trasforma, quindi, in un opprimente strumento di repressione e, nella sua forma estrema, in uno strumento di tortura, minacciosamente suggerito dalle catene e dai ganci a forma di artiglio, visibili in diverse fotografie.
Valenzuela a volte inietta nella scena una nebbia vaporosa che evoca l’umore di un luogo intriso dello sforzo di corpi umani esausti. Il fumo che avvolge gli oggetti accresce la sensazione di essere proiettati in un frammento temporale dinamico, piuttosto che in una sorta di archeologia industriale statica e dormiente. La fotografia trasforma la materia del reale in oggetti e spazi immaginari; a volte essa stessa viene inserita in una ulteriore scenografia, poi ri-fotografata, producendo una ulteriore, illusoria, percezione spaziale.
Nel volume New Works for a Post-Worker’s World sono anche inseriti dettagli di fotografie d’epoca realizzate da Leonard Nadel, fotografo austro-ungherese emigrato intorno alla fine degli anni ’30 del secolo scorso negli Stati Uniti e abbastanza noto per le sue immagini realizzate in California, Texas e Messico per conto della Fondazione Ford. A partire dal 1956, Nadel fotografò i risultati del programma Bracero, lanciato negli anni ’40, che conteneva una serie di misure in cui ai lavoratori messicani veniva promesso un alloggio e un salario minimo in cambio del loro lavoro temporaneo negli Stati Uniti.
Le immagini di Nadel provenienti da questo progetto raffigurano lavoratori trattati come «cose» da gestire e spremere per la produttività. Le immagini sono un doloroso ricordo del ruolo dei latino-americani nel mercato del lavoro. Nel sottolineare con dettagli isolati di documenti d’epoca la lotta di potere tra americani e immigrati, padroni e lavoratori sfruttati, Valenzuela sceglie di contrappuntare quei tagli con sue immagini che propongono, ciascuna, un oggetto o un’arma che la classe operaia potrebbe costruirsi in tempi di oppressione, come strumento di rivolta.
Valenzuela utilizza molteplici tecniche di produzione delle opere finali, principalmente stampe alla gelatina d’argento, ma anche fotoincisioni, serigrafie e stampe a getto d’inchiostro. Con questi mezzi, l’artista attinge coscientemente alla storia della fotografia, da un lato omaggiandola, ricorrendo a metodologie che ne hanno scandito e ne scandiscono caratteristiche estetiche peculiari, da un altro lato tradendola, sperimentando percorsi non canonici e supporti non convenzionali, spingendosi nelle incognite della sperimentazione.
Pino Musi è artista visivo e docente, vive e lavora a Parigi.
New Works for a Post-Worker’s World,
di Rodrigo Valenzuela, 200 pp., ill., Veii, Roma 2023, € 40,00